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di Paolo Marchettoni

 

E’ forse la Terra che ha smesso di parlarci, o siamo noi che non sappiamo più ascoltare? Sarebbe brutto in entrambi i casi. Siamo davvero uomini paghi, anche se sottopagati e anche un po’ sottopagani o anche se ben pagati, nei nostri begli uffici, nelle nostre belle case, nelle nostre belle città? Mi sento triste quando penso che una volta eravamo sacramente in partnership con la Terra e oggi non più, perché col tempo ci siamo convinti che potevamo dominarla, sfruttarla, umiliarla. Eliminando ciò che non ci andava a genio, rimpiazzandolo a modo nostro. Penso agli scempi architettonici e ai mostri ecologici; ma non solo. E’ successo anche con gli animali, compresi gli uomini, perfino con noi stessi. Siamo gli unici animali che sono riusciti a chiudere in gabbia gli altri animali, compreso l’uomo. E ancora una volta abbiamo dimostrato di essere capaci di poter andare oltre: abbiamo chiuso in gabbia noi stessi. Ci costruiamo prigioni su misura, dal design impeccabile, con tutti i comfort e i servizi che neanche un centro commerciale potrebbe offrirci. Gattabuie abbellite a tal punto da divenire canone di bellezza.

Una bella ideologia ci copre come un bel mantello. Una citazione forbita, luccicante più di un armatura in oro bianco, protegge il nostro corpo fragile. Prepotenti, con i nostri modi gentili da teneri seduttori illudiamo gli altri, che vogliono lo stesso mantello, la stessa armatura. Perché si sa, tutti amano il bello e vogliono imitarlo. Superarlo. E allora via scatta la corsa a chi si aggiudica la prigione più bella di tutte le altre, come chi è in cerca della sua gloria per l’eternità.

Ma, alla fine, illudiamo anche noi stessi, perché restiamo sempre in galera. Come se il corpo non fosse già una prigione abbastanza severa per l’anima. E quando qualcuno o qualcosa ci offre la chiave per uscire dalla gabbia, non capiamo, lo deridiamo e lo insultiamo.

“Povero straccione invidioso, guarda con che mantello scrauso se ne va in giro!”

“L’avrà comprato al mercato, ‘sto poraccio. Guarda, lì c’è pure un buco!”

E via grosse risate.

Il buco del mantello diventa vuoto di conoscenza. Che poi anche se così fosse, nonostante tutto resterebbe un vuoto colmabile, pagliuzza nell’occhio rispetto alla trave del vuoto di coscienza per cui l’abito umile e sgradevole alla vista rappresenta il brutto.

D’altronde anche i Greci lo dicevano: “Kalòs kai agathòs”.

“Dobbiamo essere per forza nel giusto noi che siamo belli e quindi buoni. Noi siamo belli e buoni, voi siete brutti e cattivi.”

Dannatamente furbi, tremendamente insoddisfatti. Consapevoli che più il candore della preda è grande, più grande sarà la soddisfazione nel riuscire a prevalere su di essa.

Non dimentichiamoci del brutto, per cortesia. Non facciamo finta che non esista. Anche i Greci a un certo punto si sono accorti che il brutto, non solo fa parte della realtà, ma è indispensabile per rappresentare appieno l’umanità, quella autentica. Poi naturalmente tutti hanno imitato, provato a superare, qualcuno riuscendo a travisare tutto ancora una volta, scambiando la copia per l’originale e, cosa peggiore, celebrando la forma “ideale” lontana da ogni verismo, banalizzando sulla complessità della natura. Di nuovo. Come in una maledizione.

Cerchiamo di vivere conformemente alla natura. Essa, meglio di qualsiasi uomo, ci parla e ci insegna che anche le cose brutte sono necessarie. Tuttavia, credo enormemente nel valore del confronto. E credo ancor più fermamente nel confronto tra punti di vista differenti. Per cui continuate a parlarmi, ve ne prego. Ascolterò con estrema attenzione tutto ciò che mi direte per trarre giovamento dai vostri insegnamenti.

 

 

vecchia ubriaca

Vecchia ubriaca (copia romana da un originale del 300-280 a.C. circa).

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