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di Francesco Merlino

#MidnightInVenice

Tra il 1908 e il 1920 all’interno di Ca’ Pesaro, un palazzo del ‘600 che sorge dall’acqua sul Canal Grande, si stabilì una comunità di ribelli che, guidati dal giovane e visionario Nino Barbantini, cambiarono per sempre la storia dell’arte. Rifiutando e rifiutati dalla Biennale, i ribelli di Ca’ Pesaro si opposero ad un’arte tradizionale e stanca di esistere, dando vita ad una fase eroica che non aveva precedenti.

Tra loro Gino Rossi, Felice Casorati, Umberto Boccioni, Paul Gauguin e tanti altri. Ma tra i tanti ribelli vi era un unico genio, che rimaneva nell’ombra, non per timidezza o inferiorità, ma perché lui nell’ombra ci credeva fermamente, tanto da ritenerla l’unica via di salvezza dell’arte a cui aveva dedicato la vita: la scultura. Quel genio era Arturo Martini.

Il bello della genialità è che si manifesta in modi curiosi e sempre differenti.

A cinque anni Mozart compose la sua prima opera.

A dodici anni Arturo Martini frequentò per la prima volta la terza elementare, dopo essere stato bocciato tre volte in prima e due in seconda. Poco tempo dopo fu congedato per sempre dalla scuola “per aver guardato la coca a una bambina”. Il fatto non gli dispiacque.

Dal momento in cui si liberò di quell’impegno così fastidioso, che mai aveva avuto il piacere di rispettare, Martini poté dedicarsi a se stesso. Perché lui non faceva lo sculture ma era uno scultore.

L’arte è un fulmine a ciel sereno diceva, qualcosa con cui nasci, che hai già nelle mani. Per questo Martini iniziò ad andare a Venezia, esaurendo ben presto in biglietti del treno le settecentocinquanta lire che il comune di Treviso gli aveva messo a disposizione per seguire la sua vocazione: per scolpire, per apprendere la tecnica recandosi ogni giorno nello studio di Urbano Nono. La tecnica, non l’arte. Perché l’arte non si apprende.

C’è un motivo per cui ciascuno di noi ha sentito nominare almeno una volta nella vita Fidia, Michelangelo, Rodin. Perché per avere fama bisogna avere il tempo di costruirsela. Martini aveva tempo solo per l’arte, per la sua arte, la stessa che finì per ucciderlo.

Successe un giorno d’autunno del 1944, all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Stava tenendo una lezione quando gli balenò in mente una domanda.

“La scultura può fare un pomo come fa una Venere?”

Quel giorno iniziò la sua morte.

Perché se si scolpisce un pomo quella non è un’opera d’arte ma rimane solamente un pomo, mentre la pittura può fare pomi che siano più meravigliosi delle veneri, come quelli di Cézanne o Morandi. Quella mattina capì che la scultura era una lingua morta, perché non aveva modo di evolversi, di trovare il suo volgare, costretta alla ripetizione eterna del corpo umano.

Ma mettere in discussione la scultura fu, per Martini, mettere in discussione la sua stessa vita.

Nel preciso momento in cui gli venne in mente la questione del pomo cominciò a scrivere, cercando una risposta alla morte. Cercando di capire se fosse possibile scolpire il vento o i fili d’erba e farli diventare un’opera d’arte. Solo l’ombra poteva salvare la scultura, un ombra insita nell’opera e non indotta dalla luce esterna, un’ombra eterna che non può mutare. Perché l’ombra nasconde, l’ombra preserva il mistero che è necessario per far nascere l’arte. Per questo gli antichi erano grandi, Fidia, Prassitele, Skopas, ed i contemporanei no. I contemporanei hanno svelato tutti i misteri.

Inutile dire che le domande di Arturo Martini non trovarono mai risposta, solo un po’ di sollievo, nell’acqua di Venezia.

“Qua c’è l’acqua, che ha il potere di lavarti le malinconie, la leva le scorie, la te porta via i dolori; e li porta via”.

Così parlava di Venezia al pittore Gino Scarpa, che dal 19 luglio del 1944 al 9 gennaio del 1945 raccolse i suoi pensieri nei “Colloqui sulla scultura”.

E Leggendo le idee di Arturo Martini ciò che colpisce è la sua ricerca continua della verità, senza mai arrivare all’approdo.

Perché la verità dell’arte sta nel suo mistero, nell’ombra che, come la notte, toglie certezze. Così la verità di Martini restò per sempre nelle sue domande e nel ricordo di quella giovinezza incosciente, quando fece la storia a Ca’ Pesaro. Scolpendo, senza un motivo, senza cercare un perché, come un fulmine a ciel sereno.

“Caro Barbantini, il mio dolore era precisamente quello di essere dimenticato da Voi e da Palazzo Pesaro, dove ho i ricordi più cari della mia vita d’artista. Come rimpiango le lotte e le botte di quei bei giorni di primavera! Ora non ho più illusioni e ho la tremenda malinconia di aver svelato tante verità e misteri che allora mi rendevano magnificamente irrequieto. Ricordati di me che credo che qualcosa ci sia rimasto nel cuore di quel tempo, che senza esagerare si potrebbe chiamarlo eroico. Arturo Martini.”

Scopri anche gli altri protagonisti della rubrica #MidnightInVenice: Helenio HerreraErnest HemingwayEzra Pound, Richard Wagner.

2 commenti su “Arturo Martini, il ribelle di Ca’ Pesaro rimasto nell’ombra

  1. Fa molto piacere che un testo e un artista così importanti vengano ripresi e ricordati ogni tanto. Certo Martini credeva nei misteri, cioè nelle cose che non si possono spiegare, come il desiderio o la curiosità, ma non mi sembra che il misterioso accompagni la sua poetica. Semmai la difficoltà di dire, questo sì, in un momento di completo cambiamento dei mezzi di produzione dei linguaggi, le allora nuove tecnologie, che lo spiazzarono. E in fondo in Scultura lingua morta una soluzione alla pesantezza, gravità della percezione della statua e di ogni scultura egli stesso era in grado di prospettarla. Quale? Perché non lo racconta in un altro articolo, che servirebbe a chiarire che Martini non pensava la scultura come morta, anche se lui non sarebbe stato forse in grado, ormai vecchio, di prporre altre vie, ma solo al principio di un nuovo linguaggio.

    1. Grazie del Suo contributo. La figura di Arturo Martini è molto difficile da descrivere e da interpretare, ma se ci sarà occasione proveremo a scavare ancora più a fondo. Francesco Merlino

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