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di Maddalena Papacchioli

 

L’espressione “gogna mediatica” è molto in voga di questi tempi, fin troppo. Tanto da essere spesso utilizzata a sproposito per indicare in maniera approssimativa tutti quei casi in cui una notizia scomoda, anziché rimanere sommersa come qualcuno vorrebbe, viene fatta emergere a discapito del colpevole di turno, che sia un potente o un cattivo cittadino qualunque. Solo che nel primo caso, la gogna mediatica rientra nelle breaking news, conquista il titolo di prima pagina, scatena il dibattito fino a trasformare il colpevole (o presunto tale) in innocente e addirittura in soggetto offeso, appunto. Nel secondo caso, quando si mette in moto timidamente il meccanismo della gogna mediatica, è solo un accenno breve e cade nell’oblio dopo poche edizioni o poche schermate. Poco danno, insomma.
Nel primo caso, rientrano anche i meno potenti, purché siano in divisa, perché la divisa rappresenta il potere, e quindi se indossi una divisa e ti rendi colpevole (o indagato) di un qualche reato e qualcuno pubblicamente te lo fa notare, allora comunque, non puoi essere vittima della gogna mediatica. Non sta bene, non si fa.

La gogna mediatica, dunque, è uno strumento di tortura simbolica, che prevede il ruolo oppressivo di chi la esercita e quello di chi la subisce inerme. Perché riguarda la pubblica esposizione di frasi e immagini atte ad esprimere arbitrariamente un’accusa pubblica contro chi si ritiene responsabile di un gesto esecrabile o di un comportamento riprovevole. Ed è come se lo si mettesse davanti a uno specchio a cui hanno accesso migliaia o milioni di occhi (a seconda del medium usato e della sua risonanza). Ma la gogna mediatica svolge a pieno la sua funzione solo nel caso in cui quello specchio renda un’immagine distorta del soggetto ritratto, a convenienza del detrattore che lo mostra al pubblico. Al servizio, cioè, di una tesi offensiva e accusatoria.
Fin qui ci siamo. Ho chiarito, più o meno, la faccenda della gogna mediatica, abbozzandone una definizione e le sue declinazioni pratiche. Ora vorrei aggiungere un altro elemento di analisi, rimanendo nel tema, e proporre una breve riflessione su una variante della gogna mediatica, o meglio sul suo adattamento digitale. Che per me è un falso problema, e spiego perché.
Mentre i media mainstream sono fisiologicamente portati ad esercitare una verticalità nell’informazione e nella comunicazione che può facilmente tradursi in deviazioni come gogne, dileggi, additamenti (e li usano spesso in maniera disinvolta, quasi fossero dei meri esercizi di stile), lo stesso non può dirsi dei social media. Questi, infatti, per la loro natura reticolare ed orizzontale, concedono più facilmente un agile botta e risposta, un feedback immediato e un diritto alla difesa ben più concreto, realizzabile e democratico.
Mi chiedo, perciò: ha senso parlare di gogna digitale? Sembrerebbe esagerato. Sarebbe più opportuno, a mio avviso, parlare di pubblico ludibrio. Che è un’altra cosa, molto meno pesante.
Ecco, il pubblico ludibrio, spesso, in rete, e soprattutto nei social media, scaturisce da una pratica autoreferenziale e inconsapevole, da un atto di autocelebrazione del nulla, di autocompiacimento privo di materia fondante, una sorta di selfie fuori luogo, che scivola velocemente nel ridicolo.
Mi viene in mente il bambino che indica alla folla il re nudo, nella famosa fiaba di Andersen. Il re è effettivamente nudo, e convinto invece di indossare un bellissimo abito (egli stesso dunque è causa del suo pubblico ludibrio), sfila orgoglioso tra la gente. Nessuno ha il coraggio di ridergli in faccia fino a quando quella creatura innocente non grida a voce alta la nudità reale.

Ecco cosa ha fatto Ilaria Cucchi. Ha gridato a voce alta, da facebook, che il re è nudo. Tradotto: ha ripubblicato in rete una foto che era già stata pubblicata in rete, indicando nome e cognome di chi aveva già reso pubblico in rete il proprio nome e cognome. La folla ha cominciato a ridere (tradotto, ad insultare, ad inveire, e a minacciare). Il re nudo si è scoperto nudo e si è messo paura, e allora i suoi legali hanno deciso di punire il bambino dall’indice troppo attivo. E così Ilaria Cucchi sarà querelata.
Può accadere, è un incidente di percorso, in questa sua dolorosa e infinita battaglia, che non credo la spaventi. Figuriamoci. E la questione della presunzione di innocenza se la vedrà in tribunale.
Il punto è un altro, ovviamente. È che coloro che parlano a vanvera di gogna mediatica (e mi riferisco a soggetti importanti del mondo dell’informazione e della politica), in questo caso, dovrebbero fare, sempre che ne siano capaci, uno sforzo di riflessione linguistica neanche troppo complesso.
Non si può parlare di gogna mediatica nella fattispecie. Tuttalpiù si può parlare di pubblico ludibrio.
Lo so, potrebbero sembrare dettagli, sottigliezze, tecnicismi. Ma le parole sono importanti, voglio ripeterlo come un mantra finché il concetto non entrerà nella coscienza collettiva come è entrato nella mia.
La parola “gogna” l’abbiamo chiara tutti, no? La gogna vera, intendo. La gogna in sé, la gogna e basta. Quella che non è una parola rimandata, allusiva, metafora o allegoria. Quella che è stata usata materialmente e fisicamente contro Stefano Cucchi, quella manovrata da più soggetti e presumibilmente in più sedi, quella manovrata anche da chi ha visto ed ha taciuto, da chi non si è opposto e da chi ha coperto.
E di fronte a questo tipo di gogna, quale altra gogna mediatica, per quanto violenta, potrebbe reggere il confronto? Di quale comportamento scorretto può essere accusata Ilaria Cucchi, dopo sei anni di processi, ritrattazioni, rimbalzi di accuse e colpe, depistaggi, appelli e contrappelli, perizie e controperizie, offese personali e alla memoria del fratello?
Stefano Cucchi che è morto di caserma, di ospedale o di carcere. Comunque è morto di botte. Per mano di un “assassino”. O no?
(E ci sarà stato un colpevole. O non si può dire neanche questo?)

 

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