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di Francesco Merlino

Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia.

Questo Luis Sepùlveda racconta di aver letto, inciso nella pietra del campo di concentramento di Bergen Belsen, nel suo libro Historias Marginales, conosciuto in Italia con il titolo Le rose di Atacama.

Atacama è il deserto più arido del pianeta terra, situato nel Cile settentrionale. Prima del 1971 lì non era mai piovuto per quattrocento anni, dopo con l’esigua media di 0.08 millimetri all’anno. Ma quando Sepùlveda arrivò ad Atacama insieme all’amico Fredy Taberna a bordo di una vetusta Land Rover, il 16 settembre del 1973, il deserto era totalmente dipinto di rosso. Erano le rose, le rose di Atacama, spuntate a milioni sull’epidermide secca dopo un sorso minimo d’acqua piovana. Il sole le avrebbe ridestinate alla polvere in poche ore. Tutte uguali ed uniche allo stesso tempo, milioni di inutili speranze sublimi sul volto di Atacama.

Così quell’uomo o quella donna – perché non ci è dato sapere chi incise la pietra a Bergen Belsen – rimane solo un’ipotesi di sogni e tratti somatici, diversa ma uguale a milioni di altre. Una voce confusa nella moltitudine.

Il dramma dell’uomo è la morte. La felicità è spesso l’illusione che la nostra vita, le nostre lotte, i nostri sogni abbiano importanza universale ed eterna e vengano resi immortali dal ricordo. Poi l’illusione svanisce, attraversata dall’incedere della consapevolezza della spaventosa quantità di altra vita che ci circonda, destinando la nostra storia ad una macchia indistinguibile, una rosa nello sterminato tappeto rosso.

Capita, a volte, di incontrare un uomo che si palesa come una rosa ad Acatama, voce confusa nella moltitudine.

Malik ha ventiquattro anni, la pelle scura e tiepida come l’ombra alle sette della sera, alla prima stanchezza del sole. I capelli come le star del basket NBA, gli occhi neri, circondati da puntini rossi persi nel bianco, che fanno capire che esiste un infinito anche nelle piccole cose; ognuno è un pianto trattenuto. Le labbra secche, con dei piccoli crateri, come il deserto. Talvolta compare su di esse un’oasi di acqua minerale, mentre è seduto al tavolino del bar dove si sente a disagio nel raccontare la sua storia.
Il suo corpo è qui ma i suoi ricordi lontani, in Guinea, insieme ai loro corrispettivi in carne, ossa e polvere: mamma, papà e la terra.

Ascolto e penso ai suoi ventiquattro anni in Guinea, a come sarebbero stati e non saranno mai.
Studiava a Conakry, la capitale, e la notte sognava le mucche che aravano i campi del padre giù al villaggio.
Ma sognava anche libertà e democrazia in un paese in cui dal 1958, anno dell’indipendenza, al 2008 si sono alternati solamente due presidenti: Ahmed Sekou Tourè e Lansana Contè. Poi nel 2010, dopo due anni di regime militare, si sarebbero svolte le prime elezioni libere, quelle che avrebbero decretato finalmente la vittoria della democrazia con l’elezione del presidente Alpha Condè, membro del movimento RPG (Rassemblement du Peuple Guinéen).
Malik si iscrisse al partito Union des forces democratiques Guinea nel 2011, quando aveva diciannove anni. E chissà cosa vuol dire avere diciannove anni in Africa occidentale.
Da quando aggiunse il suo nome a quella lista crebbe in fretta come le rose ad Atacama e come loro sembrava condannato a vita breve.
Non sa quanto tempo passa, un attimo nella sua memoria, e gli uomini del presidente lo vengono a cercare.
Così inizia di colpo a non sognare più in là del giorno dopo e, braccato da chi lo vuole morto, fugge dalla sua vita per poterne avere ancora una.
Costa d’Avorio, Burkina Faso, Niger, Libia.

Quando arriva in Libia è un ragazzo provato dal dolore, quando ne fugge un uomo ferito. Perché, come mi dice: “La Libia ha un problema, entrare è più facile che uscire”.
Quando arriva lì ha ventitre anni e chissà cosa vuol dire avere ventitre anni in una galera libica, chissà cosa vuol dire rischiare la propria vita senza nemmeno saperne il perché.
Per strada in Libia, se sei straniero, puoi essere preso, perquisito, derubato, ucciso.
Un mese di carcere, un mese di concrete ed irreali violenze, viste e subite, durante il quale vede molti ricevere una pallottola in testa, senza un perché; vite senza tempo, macchie minuscole nell’infinità della morte.
Un mese in cui si accorge di saper vendere cara la pelle.
Così Malik trova la forza di scappare, ancora una volta, senza nulla, fino al mare, che porta fin sulle rive della Libia la libertà che sognava quando era ancora un ragazzo. Vorrebbe poter tornare indietro, alla sua vita, perduta per sempre nel traffico infinito delle possibilità mai realizzate.
Malik è adulto quando lascia la Libia.
Sono centoquattordici nel gommone, centoquattordici vite importanti e sconosciute.

E’ un giovedì a mezzanotte, quando è tutto buio ed è impossibile distinguere il bene dal male, ma non la vita dalla morte.
Per questo Malik sale su quel gommone e si prende tutte le onde, tante che bisogna stare attenti, perché quando ti culla il mare è facile addormentarsi e non svegliarsi più.
Ma il destino volle far risorgere il sole sul suo viso e un nuovo giorno sul volto del mondo, che svelò con la luce il trucco che si celava dietro la paura: è caldo al largo della Sicilia.
Malik ha gli occhi neri come la notte, non sanno distinguere il bene dal male, ma solo la vita dalla morte, lasciando l’arduo compito di giudicare a chi sa dire cosa sia giusto e cosa sbagliato.
Ora studia l’italiano (è già sulla buona strada) e vorrebbe frequentare un corso professionale da meccanico.
Si dà da fare; come una rosa che resiste al deserto, chiedendosi, negli intervalli di tempo della sua esistenza miracolosa, se non sia stato troppo salato il prezzo pagato per la libertà.

La notte sogna le mucche che arano i campi, giù al villaggio.

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