CONDIVIDI

di Andrea Pavoni

 

Corrodere

‘Lei non rispetta i miei diritti di spettatore. Non mi spiega e non mi fa divertire’. Alla fine della proiezione di Sicilia, allo spettatore che reclamava i ‘suoi diritti’, Jean Marie Straub sibilò irritato: ‘io non faccio film per gli spettatori, io faccio film per i cittadini!’

Concepita come mero intrattenimento, divulgazione e abbellimento, l’arte si riduce a semplice strumento per piacevoli e pacifiche esperienze spettatoriali. Certo, avete ragione, non c’è nulla di male a divertirsi. E comunque sì, Alberto Sordi ve lo meritate.

A metà anni 70 Andy Warhol osservava che i ristoranti di New York non vendevano più cibo ma atmosfere in cui i clienti si potessero immergere confortevoli per un paio d’ore. Chi meglio di lui poteva comprendere la graduale trasformazione del marketing in experience economy, e il ruolo che l’arte vi avrebbe giocato?

Street art (definizione imprecisa ma utile) è intervento urbano. Inter-venire: entrare nel corso delle cose producendovi un evento. Urbano, poiché la città non ne è contesto, ma materiale stesso: muri, vagoni, palazzi, convenzioni sociali, gusto comune, norme legali. La street art appare, ed apparendo provoca un’increspatura nella superfice urbana, a prescindere dalla sensazione soggettiva che produce in me o in te. Può piacermi, rilassarmi, infiammarti, disgustarti, ma al di là di questi effetti soggettivi, fenomenologici, il valore corrosivo di un pezzo di street art sta nel suo stesso esserci, nel suo evento, nel fatto stesso di aver luogo nella ed attraverso la città, provocando un sobbalzo, più o meno rilevante, più o meno trascurabile, nel suo sismografo ontologico.

Un valore corrosivo che è ben testimoniato da decenni di stigmatizzazione e criminalizzazione sistematica. Valore che contengono, in potenza, tanto un tag sbrigativo che un murale monumentale, a prescindere dai loro contenuti, dal loro valore d’uso o di scambio. Questo è ciò che differenzia un pezzo di street art da una fila d’alberi piazzata a fianco di un marciapiede, una tettoia che protegge una fermata dell’autobus dal sole, una nuova mano di vernice al palazzo del comune o un qualsiasi intervento di design urbano. La sua irriducibilità, in altre parole, a volte evidente, a volte impercettibile, rispetto al buon senso comune ed alle sue soglie di accettabilità, convenienza e bellezza. Ciò non la rende necessariamente ‘buona’ o ‘desiderabile’. Muralismo non è moralismo. La street art non si muove nel campo della morale, ma in quello dello spazio urbano, in cui effetti e risultati si valutano, si sfruttano, nella contingenza del suo accadere, e non nell’eterea immutabilità dei principi a priori.

 

Distruggere

Lucano ci racconta che, con l’esercito romano esitante di fronte all’ordine di abbattere una foresta sacra nei pressi di Marsiglia, Cesare avanzò determinato e segò personalmente un albero. Girandosi verso le sue truppe, esclamò: “Ormai – perché nessuno di voi abbia la più piccola esitazione ad abbattere il bosco – credete pure che sia io a compiere la profanazione”.

“Few things are as astonishing as seeing the casual, physical destruction of what one holds sacred,” ricorda Teju Cole. Oggi, la soglia di sacralità per un’opera d’arte sembra corrispondere alla sua elevazione a bene comune, patrimonio collettivo. Ne segue la rabbia impotente di fronte ai Buddha di Bamiyan che si sgretolano, ai templi di Palmyra che crollano al suolo. Atti, tra l’altro, che non fanno che rivelare la profonda soggezione degli esecutori al potere misterioso di queste statue, tale da richiederne la demolizione, appunto.

Una sequenza fotografica di venti anni fa mostra Ai Weiwei, impassibile ed immobile, che lascia cadere al suolo un vaso della dinastia Han. Il vaso (che Weiwei aveva regolarmente comprato), così come il suo valore archeologico e di mercato, si infrange in mille pezzi, acquisendo un nuovo valore, non più legato a permanenza e conservazione, ma ad una effimera performance ed al suo impatto corrosivo sul buon senso comune, quello che ci intima che un vaso Han non può essere deliberatamente infranto.

Weiwei ha ridipinto con colori sgargianti e slogan commerciali un’altra serie di vasi Han. Due anni fa, durante una mostra al Perez Art Museum di Miami, l’artista americano Maximo Caminero si è incamminato lentamente verso di essi, ne ha sollevato uno e, impassibile ed immobile, lo ha lasciato cadere al suolo. L’artista cinese non ha gradito granché, e neanche la polizia americana. Chi è il vandalo?

Le ben note rimozioni delle opere di street art per la mostra Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano sono state mosse, spiega Fabio Roversi Monaco, dall’intento di ‘salvarle dalla demolizione e preservarle dall’ingiuria del tempo’. ‘Il museo ha il dovere di sollevare il problema culturale della salvaguardia, del restauro, della permanenza di queste opere nella storia’, ha aggiunto il curatore della mostra, Christian Omodeo. Blu, come è noto, ha risposto cancellando le sue opere dai muri di Bologna.

Daniele Ara, il presidente del quartiere Navile di Bologna, ha detto: ‘Io capisco l’intervento politico nei confronti di chi vuole fare diventare tutto una merce, ma Blu si è completamente disinteressato del fatto che le sue opere siano ormai un bene collettivo. Sono allibito: ora al posto di quell’opera arriveranno le solite scritte idiote.’ Chi è il vandalo? Chi decide quali scritte diventano bene collettivo e quasi siano solo idiote?

Il filo che unisce le dichiarazioni di Ara, Omodeo, Roversi Monaco è l’assunto condiviso che la street art sia un bene comune, un patrimonio collettivo, in quanto tale necessariamente da salvaguardare, conservare, preservare. Ovviamente, a patto che sia adeguata, accettabile, bella, non idiota insomma, a patto che sia arte. È per questo che la cancellazione di Blu è stigmatizzata. Non è forse vero, come qualcuno ha notato su Artribune, che il gesto di Blu finisce per mettere in pratica la stessa violenza esclusivista di Roversi Monaco e soci, privatizzando anch’egli l’opera d’arte e impedendone la fruizione pubblica? Anzi, se Roversi Monaco ancora la permette, previo pagamento di 13 euro e visita alla galleria dove sono esposte, Blu la nega, per sempre.

 

Sabotare

Più di trent’anni fa James Q. Wilson and George Kelling coniarono la famosa Broken Windows theory, secondo cui il degrado estetico di un quartiere genererebbe le condizioni ambientali più propizie per commettere atti criminosi. Sintomi di tale degrado, e dunque agenti criminogeni, sarebbero dunque vetri rotti, sporcizia, graffiti. Nulla di più lontano dall’odierna esaltazione della street art a bene comune sempre più tutelato, patrocinato, protetto. Eppure, dalla demonizzazione di ieri alla celebrazione di oggi, il dispositivo ottico con cui si guarda ad essa non è cambiato. A cambiare piuttosto è stato il gusto comune, la cui evoluzione verso parametri più hip, cool e street-wise ne ha sancito la progressiva rivalutazione, estetica e commerciale, come successo ad hip hop, skateboard e svariate altre controculture.

Recuperation, come la chiamavano i Situazionisti, il recupero di strategie artistiche radicali entro l’alveo del capitalismo, la cui strategia, più precisamente, corrisponde alla costante appropriazione della comune produzione del valore sociale, culturale e creativo che costituisce il tessuto urbano, dirottandola entro i propri circuiti di valorizzazione. Un processo sempre contingente e dunque mai perfettamente fluido, totale e completo. Un processo che, mi sembra, si sostiene su di un dispositivo di cattura specifico anche se apparentemente incompatibile: l’equivalenza street art = bene comune.

Tale dispositivo infatti sancisce la riduzione della street art a patrimonio collettivo, strumento di abbellimento e miglioramento urbano da proteggere e salvaguardare, tutte categorie nobili come nobili sono spesso le intenzioni che le animano, e che però la pacificano irrimediabilmente, disinnescandone ogni potenziale corrosivo e, in questo modo, esponendola al processo di appropriazione di cui sopra, come accaduto ai ben noti graffiti di Blu divenuti promozione involontaria della gentrificazione berlinese.

In tal senso non credo che il punto sia di arenarci in infinite discussioni circa la negoziazione delle frontiere definitorie della street art tra arte, mercato e vandalismo. Come dice Brighenti, sia la visione che la identifica come arte (e quindi la interpreta come bene collettivo), sia quella che la riduce a crimine, sia quella che ne enfatizza una supposta purezza al di là del mercato, non colgono che ciò che è in ballo nella street art non è il coefficiente artistico, commerciale o criminogenico, ma il modo in cui essa ridefinisce ogni volta la natura ed i limiti dello spazio pubblico in quanto pubblico. Di ciò che è permesso, accettabile, conveniente, bello.

Qui allora possiamo trovare un altro senso, più profondo, del gesto di Blu. Non solo, non semplicemente, critica della privatizzazione e musealizzazione della street art. Cancellando i suoi graffiti, Blu ha messo in piedi un sabotaggio del dispositivo di cattura della street art, reclamandone il valore corrosivo, scomodo, irriducibile in quanto eccessivo (ma non necessariamente incompatibile) al gusto comune, la sua qualità dinamica, irrequieta e mai completamente appropriabile, preservabile o addomesticabile. Una mano di grigio per sabotare le categorie con cui il mercato e il senso comune la ingabbiano, così da restituirla realmente alla comunità, non come statico bene comune da conservare, preservare, salvaguardare, ma come conflitto da attualizzare ogni volta.

Lascia un commento

La tua mail non verrà pubblicata, * campi obbligatori