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di Francesco Merlino

 

Se chiudo gli occhi trasformo questa motoretta in un aeroplano e finché ce la faccio sopravvivo e vado avanti.

Non andrà più veloce dei quaranta all’ora, maledetta!

Ma io chiudo gli occhi e torno su in cielo, guardo giù e vedo il lago e le colline e tutta la natura dinamica che mi avvolge. Sembra quasi che ora vada più veloce. Lascia sfumature di vernice rossa nell’aria. Sembra un quadro di Balla o di Carrà. Sono contento che quei due non mi vedano, li immagino mentre sicuramente ridono di me e del duce. Ah il duce!

Avrei dovuto limitarmi a far l’artista senza troppa politica. Ma Marinetti voleva che ci esponessimo, voleva cambiare il mondo con le sue idee pazze, e la lotta, il movimento, la velocità…

Dai cammina dannata! Apro tutto il gas ma mi sembra che l’asfalto la trattenga, mentre io la spingo a volare. Quantomeno il vento non mi scompiglia i capelli né mi stropiccia la camicia che è l’unica che mi è rimasta. Ma non ce l’hai una marmitta!?

Voglio sentire il rumore scombussolare tutto, voglio vederlo fare a botte con il circostante. Devo provare a non pensarci e devo continuare e questo forse è ciò che mi fa più rabbia.

Sono su un aeroplano, sono su un aeroplano.

Con il mio Borsalino in testa farei bella figura, se solo non avessi dovuto venderlo. E sarebbe rimasto ben saldo alla mia fronte  purtroppo: sembra di star fermi! Voglio fendere l’aria, rompere le pareti. Il futuro è  velocità, ad andare lenti si rimane fermi al presente mentre il presente diventa passato; ma se vuoi stare al passo devi correre.

Stai calmo. Lo devi fare per mangiare.

Ma che senso ha questo? Un artista non deve preoccuparsi di dover mangiare,  tutt’ al più di bere o fumare. Non voglio sopravvivere. Soldi maledetti, che se li tengano i ragionieri! Un pittore non ha bisogno di soldi o di mangiare, ha solo bisogno di abbassarsi la febbre con l’arte. E tu cosa borbotti?

Ci manca solo di rimanere a secco.

Al diavolo il fascismo, al diavolo il futurismo, volevo solo dipingere. Se non fossi appartenuto a qualcuno, se fossi rimasto solo,  forse non sarei qui ad elemosinare un lavoro da imbianchino per un tozzo di pane ed un barattolo di brillantina.

Ieri sono stato a Magione, oggi tocca a Montecolognola e chissà, se la fortuna mi assiste, arrivo fino a Montesperello o Passignano. Almeno ho lui vicino a consolarmi. Amavo solo lui e questa terra. Quante volte l’ho dipinto e quante ancora lo dipingerei, non vedo l’ora di rivederlo. Anche se significa andare oltre, riuscire a guardarlo per un secondo e poco più e poi continuare a tenere gli occhi chiusi per non farmi tentare o illudere. Oggi non posso dipingere, oggi ho le vesti del manovale.

Eppure che desiderio che mi arde dentro… ma devo aspettare ancora un po’, adesso devo pensare a mangiare e non posso esaudire il mio amore. Tranquillo, tranquillo non demordo. So bene che ciò che si uccide in sogno muore più dei morti della terra. Non smetto di sognare, altrimenti non mi sveglierei ancora alle sei del mattino e non salirei su questo rottame che cammina e non cammina a seconda della sconnessione del terreno. Non mi arrendo, boia chi molla no? Non so se ridere o piangere.  Continuo a progredire contro i miei limiti e le mie convinzioni, Montesperello non è l’Everest e si scala anche con un catorcio di motorino con una scatola di legno scassata, legata a mo’ di porta bagagli. Il progresso ha sempre ragione, anche quando ha torto.

Quante banalità sulla lotta e l’igiene del mondo. L’entusiasmo della teoria ha lasciato il passo alla desolazione della pratica ed il 1909 è diventato il 1946. La guerra ti strappa via tutto e l’avrei voluta vedere la faccia di Boccioni nel guardare la sua Città che sale cadere a picco di botto ed in ogni zona del mondo. Ma le mani per dipingere e la testa per perseverare non me le ha strappate via neanche un po’. Sono un artista. Nessuno mi può capire, nemmeno io a volte mi capisco. Sono confuso.

Forse sono fascista, e tutti mi odieranno per sempre.

Forse ha ragione Marinetti e quella guerra era l’unica maniera.

Ma di certo sono un artista e devo dipingere, e un giorno dipingerò ancora.

Sono quasi arrivato. Di qui si gira a destra, anche oggi inaspettatamente mi hai portato a destinazione vecchio ammasso di latta. Avrei voluto fonderti tempo fa, per fortuna non l’ho fatto. Mi fermo qui un secondo soltanto, lo so che manca ancora qualche metro per arrivare alla chiesa del paese ma guarda un po’ lì, da quassù si vede il Trasimeno.  Tornerò qui più veloce della luce, e lo dipingerò di nuovo, perché Dottori non si arrende, perché è questo quello che sono, quello che amo.

Chiudo gli occhi, sono su un aeroplano.

Al termine della seconda guerra mondiale Gerardo Dottori si ritrovò in condizioni di indigenza, ripudiato dalla gente che lo associava al movimento fascista. Povero fino al punto di non saper quasi cosa mangiare, ogni mattina saliva a bordo del suo motorino con una scatola di pennelli e barattoli di vernice, metteva in moto e girava i paesi della zona del Trasimeno in cerca di qualche chiesa che avesse bisogno di una decorazione banale o anche di una nuova mano di intonaco. Chissà cosa pensava a bordo di quel mezzo che era al contempo la fine dei suoi vecchi sogni e l’inizio dei nuovi. Le chiese di Montesperello e Montecolognola ospitano tutt’ora sue decorazioni, insieme a molte altre. Dottori in tempi di crisi accettò l’umiliazione di abbandonare i panni dell’artista per indossare quelli da imbianchino. Oggi però è un artista.

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