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di Antonio Cipriani

 

C’è un ex collega, del quale avevo quasi dimenticato il nome, che per evenienze editoriali e social è riapparso nella mia vita. Con la sua aggressività machista da realizzato, con le certezze assolute di chi è stato sempre abituato a vincere. Con la spocchia di chi ha cambiato cento bandiere, ma non ne ha mai sbagliata una. All’inizio mi ha infastidito con la sua ironia a senso unico, fatta di luoghi comuni e giudizi sprezzanti nei confronti di chiunque si fosse messo, nell’inseguirsi delle stagioni, nelle condizioni di perdere. Nella vita, nella politica, nelle scelte di solidarietà umana, nella coerenza talmente stupida da rappresentare un orpello inutile. Poi ho capito. Cavolo se ho capito, ho visto la luce si potrebbe dire. E l’ho vista grazie a questo personaggio che consideravo talmente insignificante da averne perso le tracce nella mia memoria.

Il conformismo in quest’epoca è una droga. La più potente e significativa droga dei ricchi. Meravigliosa perché contiene al suo interno un rovesciamento di senso: si basa sull’assenza di decoro, perché il decoro appartiene alle classi subalterne, ai poveracci, alle persone che devono presentarsi col cappello in mano a cercare lavoro, mostrarsi sottomessi e senza grilli per la testa, puliti e ordinati.

Il conformismo del tempo è ruggente, sniffatorio, trasgressivo. Individualista, gioca sull’effetto, non deve mai porsi dubbi etici (tantomeno estetici) né porre in essere alcun senso critico. Si tratta di una capacità mimetica di livello superiore: il conformista è creativo, intellettuale di buone e giuste letture, ha capacità di esprimere la sua individualità nel luogo giusto in cui si misura il merito sulla base del salotto dove poggia le chiappe. Ieri come oggi. Un tempo gli scomodi divani della rivoluzione, poi quelli di un partito, fino a quelli eleganti raggiunti per aver capito che per vivere bene, sereni e agiati, occorreva assumere la visione del potere. E che questa metamorfosi portava con sé la certezza assoluta del fatto che questo potere, simbolicamente stretto al denaro, ha ragione, sempre e comunque. Il povero, il migrante, il disoccupato si tolgano dalle scatole, la loro semplice vista rende la città spiacevole.

Il conformista del tempo, dopo aver attraversato il Pci, le fumose riunioni, e poi tutte le declinazioni di quel partito, ha trovato la sintesi perfetta: le politiche neoliberali mettono insieme il politico e l’economico. Punto. Non hanno niente a che vedere con la giustizia sociale, con l’etica, la comprensione dei problemi di chi ha meno. Ne parlano come si dovessero sempre disinfettare la lingua, con il timore del contagio: per il conformista – tanto più se si sente di sinistra – il povero porta sfiga, il senzacasa vale di meno di una stanzetta vuota in uno stabile vuoto di proprietà di un fondo di investimenti, il rifugiato deve sparire dalla vista, dormire all’addiaccio lungo fiumi o caverne, ma senza sporcare, senza mettere su neanche una tenda che rovina il decoro. A differenza di quanto il liberalismo classico nelle sue versioni progressiste prevedeva, il neoliberismo rancido e perfettamente interpretato dai vincenti non prevede interventi pubblici a favore delle classi economicamente disagiate. Non ipotizza niente che possa riequilibrare l’ingiustizia.

Per il conformista, creativo, giornalista, trasandato alla moda, i poveri sfigati sono gli imbecilli che non sanno diventare ricchi, e si lamentano in piazza. Per loro legnate. I meridionali sfaticati, gli artisti che non fanno marketing di se stessi in ginocchio nei tempi del denaro, sono dei pirloni. Ogni ideale, ogni senso di giustizia sociale, di solidarietà, preso a morsi con l’arroganza di chi non ammette repliche perché non esiste possibilità di replica nei confronti di chi cambia posizione e bandiera adeguandosi costantemente al trend vincente. Di chi, liberamente, sente di aderire alla posizione più vantaggiosa in doppiopetto. E lo fa con quella giusta spocchia e sudditanza che rappresentano la tipologia esatta della merdaccia di successo. Senza pietà, senza misericordia, senza memoria.

Mentre finisco di scrivere mi rendo conto che quell’inutile orpello del mio passato già è svanito nella mia memoria, come un niente destinato a restare tale. Anche se in cuor mio ho un timore: vedermeli questi portaborse dell’alta velocità, della legalità autoritaria, dei salotti buoni, in prima fila con gli oppressi nel giorno in cui le coscienze si risveglieranno e sarà rivoluzione. Che brutta immagine, no, no. Meglio dimenticare.

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