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di Elena Vecchini

 

Questa mattina mi sono svegliata di soprassalto.
Ho creduto che il tetto mi stesse cadendo addosso, tanto forte era il rumore.
Non so precisamente cosa stia accadendo lassù, ormai sono giorni che succede, ma la proprietaria di casa farebbe bene a preoccuparsene. Per quanto mi riguarda, il vento non è un problema, anzi; il suono del suo passaggio mi rilassa.
Qui tra i vicoli non c’è mai pace; c’è una stanza di fronte al nostro bagno e la persiana della finestra si sta sgretolando a poco a poco, a forza di sbattere contro il muro. Un’anta delle due rimane sempre aperta e non ci sono tende, quindi spesso io e Matilde ci buttiamo un occhio dentro. C’è un grande letto arrugginito degli anni ’70, un piccolo comodino di legno e un crocifisso appeso alla parete sopra la porta. Il pavimento è quello tipico delle vecchie case del centro storico, con gli inserti neri e giallo ocra.
In due anni si saranno alternati più o meno una trentina di inquilini, quasi tutti giovani maschi stranieri.
Questa estate, durante il periodo di Umbria Jazz, la stanza era stata affittata ad un ragazzo cinese, e ogni volta che guardavamo di là lo vedevamo seduto davanti al pc. Spesso rideva di cuore.
Il primo anno di università mi capitò di parlare con un collega di Shangai; si faceva chiamare Massimo, ma a parte il suo nome non sapeva una parola di italiano. Mi spiegò in un inglese stentato che in Cina i social network sono tenuti sotto controllo dal governo, ma non ho ben capito se possono accedervi o no.
Dopo il ragazzo felice ne arrivò un altro arabo, che appese la bandiera della Palestina sopra la porta, vicino al crocifisso. Da allora ci è rimasta.

Non mi interessano affatto le vite dei vicini, eppure guardarle scorrere attraverso una finestra è affascinante, anche perché non ne conosco nessuno. Di sera, quando le case si accendono, sembra un presepe; poi verso le 23:30 cominciano a tornare nel buio, una ad una.
A volte, da dietro le tende, si scorgono soltanto le ombre, e allora immaginiamo lunghe conversazioni e scommettiamo sulle prossime mosse che quelle persone faranno. Mi stupisco anche del fatto che non è per nulla difficile prevederle.
Di fronte alla finestra della cucina c’è una casa di studenti, credo che siano calabresi, perché ogni volta che tornano dopo qualche festività portano con sé alcune piante di peperoncino e le sfoggiano in balcone.
Ieri ero fuori per la solita passeggiata serale con il cane e una violenta folata di vento ha fatto cadere due dei tre vasi dei ragazzi, pochi metri più avanti a noi. Lì per lì ho pensato di suonare e avvertirli, però poi ho capito che ero stata miracolata, che quei vasi sarebbero potuti cadere in testa a me o a Rocco, e allora ho raccolto i frutti delle piante e me li sono messi nelle tasche. Per pranzo oggi cucinerò spaghetti aglio, olio e peperoncino caduto dal cielo.

In città il vento può sbizzarrirsi, perché ci sono tanti fori da riempire e c’è molta ferraglia da smuovere, quindi può suonare musiche d’ogni genere. Se chiudo gli occhi, il cigolio delle grondaie arrugginite, il tintinnio delle antenne sui tetti delle case e il fischio del vento che si insinua nelle crepe delle mura di pietra mi ricorda il concerto che le barche fanno nei porti nei giorni di forza nove.
D’inverno, quando abitavamo sull’isola, mi svegliavo ogni giorno alle 05:50 e rimanevo attentamente in ascolto fino alle 06 in punto; se tutto intorno a me c’era la guerra, allora significava che io potevo rimanere in pace e non andare a scuola. E’ per questo che il vento mi rilassa, perché quando tirava forte attraccare sulla terraferma era impossibile.

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