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di Antonio Brizioli

 

Che cos’è una storia d’amore di fronte al mistero delle galassie, di fronte a quell’infinito con cui gli scienziati genericamente mascherano un via vai di dubbi irrisolvibili?

Non lo so, in fondo ci amiamo un po’ per noi stessi, un po’ per raccontarlo agli altri, un po’ per riempire – operosi contadini – quel granaio che Baudelaire ci suggeriva di far trovare colmo alla fine dei nostri giorni: il granaio dell’amore.

E così sono sul letto, di mattina molto presto, a pensare a quella cosa strana che facevamo: vedersi di nascosto, vedersi in piena notte, frugare tra le stelle di un cielo brillante per capire quale fosse il nostro astro e non essere mai capaci di trovarlo. Un po’ ci dispiaceva e una volta mi è sembrato perfino di vederti scorrere una piccola lacrima alla sinistra del naso. L’hai asciugata cercando di non farti vedere, ma sei stata scoperta. Ci siamo tenuti il segreto per noi.

Non devi pensare troppo alle conseguenze, alle circostanze, alle condizioni, noi ci amiamo così tanto da poter vivere l’istante. A testa sgombra come molto più spesso dovrebbe essere.

Questo mi dicevi tu una sera e io lo ripetevo quella dopo per sorreggere le tue crisi come tu avevi il mestiere di fare con me.

Lascia stare i sensi di colpa, non devi averli con lui, non devi averli con me. Abbiamo due ruoli diversi e non siamo in competizione. Se nel tuo cuore c’è posto per entrambi è solo perché tu hai un grande cuore. E infatti ogni volta che ci poggio sopra un orecchio delicato lo sento battere forte forte. Non sembra neanche possibile che sia compreso in questa cassa toracica da adolescente innamorata, con gli ossicini fragili, quasi sul punto di rompersi.

Come ti confortavano queste parole. Restituivano profondità ai tuoi respiri, che portavi al mio orecchio senza farti pregare. Respiri educati, autentici e mai selvaggi, appagati e mai compiaciuti. Non era una storia fisica perché c’erano tante parole, molte più di quante se ne trovano in gran parte delle storie normali.

Ricordo un giorno, guardavamo un cielo pieno di nebbia e immaginavamo cosa ci fosse oltre. Tu mi chiedesti con un filo di voce: “Ma le stelle ci sono anche quando non si vedono piccolo mio?”

Non era una domanda facile, lo riconosco. Come non erano mai banali i quesiti che sapevi porre. L’intelligenza con te, aveva un suono insospettabile. Diedi nuovamente uno sguardo al cielo, poggiato su un materasso impermeabile di nebbia bianca. Inutile cercare uno spiraglio, non c’era. Rigirai la domanda, come a volte si è obbligati a fare con gli interlocutori più arguti.

Pensa a noi – Jasmine – ci vediamo da due anni, una media di tre volte a settimana, facciamo l’amore, parliamo tanto, ci inventiamo dei bei posti nei quali dormire eppure nessuno sa di noi (perché io – dopo che abbiamo stretto quel patto guardandoci negli occhi – non ho parlato di te neppure agli amici più cari), secondo te esistiamo? Perché vedi noi siamo come quelle stelle, ci siamo ma nessuno ci vede. Un velo di silenzio copre il rumore dei nostri respiri, quindi esistiamo o no?

A quel punto mi hai guardato per molti minuti, sperando che come era accaduto altre volte, rispondessi alla mia stessa domanda. Seppi trattenermi come richiedeva la sacralità del momento e allora fosti costretta a rispondere tu, con la voce un po’ più decisa del solito, forse a mascherare la scarsa solidità dell’argomento portato.

Noi non esistiamo, proprio come quelle stelle noi non esistiamo. Ma vedi bene, tesoro dolce, che quelle stelle stanotte sono molto più felici del solito. Non devono stare immobili a farsi fissare dagli innamorati, possono muoversi, possono scoprire qualcosa in più su se stesse, possono fare cose che avranno l’onore di custodirsi dentro fino alla fine dei giorni, senza che nessuno all’infuori di loro le sappia mai. Io mi vedo con te per essere come quelle stelle e ti amo perché tu mi concedi questa possibilità. La clandestinità è un valore. Grazie per il regalo che mi fai.

Com’erano belle quelle parole dette da te, me le ricordo una per una, comprese le virgole, le pause, le pieghe inconsapevoli della tua voce. Dopo quella volta abbiamo smesso di vederci, perché forse più in alto non si poteva salire o forse, essendo noi stelle, più in basso non si poteva scendere. Ci siamo incontrati qualche mese dopo, un caffè, due chiacchiere. Ti eri lasciata col tuo ragazzo perché lui aveva scoperto tutto, o meglio, tu in un giorno di debolezza e sensi di colpa gli avevi raccontato tutto.

Feci un sorriso. “Ora esistiamo” pensai a voce alta. Non siamo più quegli eroi privilegiati nascosti dietro le nuvole.

 

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