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di Luca Mikolajczak

Un cazzotto. Quello fu il bottino della prima battaglia amorosa con quella donna così spavalda nelle forme e così fiera nei modi da matrona.

Non avrebbe mai immaginato che era figlia di un pescivendolo, avrebbe detto una contessa navigata piuttosto.

Quel giorno in cui la vide per la prima volta ad un galà di ovattata socialità era indaffarata a disquisire vezzosa con i pezzi grossi della borghesia cittadina.

Tra un prosecco e un pettegolezzo, i loro sguardi si incrociarono. Un attimo.

Un imbarazzo puerile malcelato sotto una protervia solo apparente insinuò in lui una fantasia nuova, quasi malsana. Sapeva bene che era una storia impossibile, ma forse proprio questo lo eccitava e lo istigava a perseverare in una liason esecrabile: con quale coraggio fare avances alla socia d’affari del padre, più grande di lui di quattordici anni, madre e moglie irreprensibile?

L’avrebbe mai degnato l’imprenditrice lungimirante, capace di trasformare in oro persino la lana dei conigli?

Luisa metteva il lavoro sopra ogni cosa, a casa non faceva altro che meditare su come incrementare la produzione e migliorare la vita dei suoi tanti dipendenti, che conosceva uno ad uno. Per loro organizzava feste, gare, tornei, costruiva asili e quartieri.

Ma per se stessa cosa faceva?

Giovanni colse nei suoi occhi, vispi ma malinconici, un grido di insoddisfazione. Ebbe la presunzione di interpretare quella dedizione assoluta agli altri come un diversivo, un modo per non pensare a sé, alle sue fragilità irrisolte.

Aveva tutto, una moderna donna emancipata e tenace, forte e in salute, con una bella famiglia alle spalle.

Ma perché il marito non la accompagnava quasi mai nelle sue serate galanti? Perché lei stessa, così loquace nel parlare di ciò che faceva, diventava all’improvviso reticente nel parlare del privato?

Come se non ne valesse la pena, o non fosse il caso, magari in un altro momento.

Giovanni si convinse che Luisa aveva bisogno di lui, e lui la meritava.

Le fece trovare sulla scrivania dell’ufficio una rosa con un invito a teatro.

Si aspettava un rifiuto. Non un cazzotto però.

La cosa non gli dispiacque affatto, contrariamente a quanto fece credere agli amici, anzi lo intrigò ancora di più.

Iniziò a inviarle cartigli d’amore sfrontati quanto serve, dolci quanto basta.

Le parole sono come coltelli.

Dopo un mese arrivò la prima risposta. La donna tutta d’un pezzo si sciolse. Un bacio. Un altro. Un altro ancora. Catullo avrebbe approvato.

Lei non volle mai saperne tuttavia di andare a vivere con lui, teneva troppo ai suoi spazi e non poteva vedere i calzini sparsi in giro, era metodica in tutto. E poi, i figli, non avrebbe mai fatto loro uno sgarbo del genere.

Era felice Luisa, il suo primo pensiero della giornata non era rivolto alla fabbrica, ma a quel ragazzo che con il suo ardore inquieto aveva risvegliato una femminilità che credeva sopita, e invece era viva. La rosa non era ancora avvizzita.

Tutto andava a gonfie vele. Il padre quando era piccola le ripeteva sempre che il lieto fine non esiste, con troppa durezza, e lei prese quel monito alla lettera.

Ora però, ormai donna matura, non poteva fare a meno di sperare in un lieto fine, dopo tanta fatica, tante delusioni, tanti non detti.

La diagnosi fu impietosa.

Il male la stava aggredendo alla gola, quella che non aveva mai risparmiato, profondendosi in direttive ed elogi senza sosta.

Lei che voleva tenere tutto sotto controllo era spiazzata.

Giovanni le fece un ultimo regalo. Parigi. Fu il tango più bello di sempre, un tango straziante e inesorabile. Un bacio ancora. Amen.

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