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di Pancrazio Anfuso

“Vivere non è possibile”
Lasciò un biglietto inutile
Prima di respirare il gas
Prima di collegarsi al caos

Sul foglio lasciò
parole nere di vita
“La guerra è finita
Per sempre è finita
Almeno per me”
(Baustelle, La guerra è finita, 2005)

Da due giorni tiene banco su tutti i mezzi di comunicazione la lettera di Michele, ragazzo udinese di trent’anni, che si è suicidato lasciando una lettera che i genitori hanno inoltrato al Messaggero Veneto, perché la rendesse di pubblico dominio.

La lettera racconta le motivazioni di Michele, disoccupato e disallineato rispetto alla realtà di tutti i giorni, che decide, con un ragionamento apparentemente lucido, che è il caso di farla finita.

Un testo che lascia attoniti e che sarebbe facile, se si ragionasse tra vivi, mettere in discussione, anche per sentirsi chiarire qualche passaggio dalla mano che l’ha vergato. Ma Michele è uscito dalla discussione, e niente ce lo riporterà qui per sviscerare il tema del senso da dare all’esistenza.

Michele si è ucciso per motivi suoi che non si possono considerare oggettivi. C’è, però, nella sua riflessione conclusiva, un insieme di cose di cui andiamo tutti discutendo da sempre. Tocca le questioni più gravi: il lavoro che manca, il talento che non viene riconosciuto, i sogni infranti, la snervante trafila di colloqui senza esito, le difficoltà nei rapporti con le persone, la mancanza di punti di riferimento che costituiscano una ragione di vita. La felicità che qualcuno ci ha rubato. Il diritto a uno spazio che non ci viene garantito. Il futuro angoscioso che ci aspetta.

Discutiamo, con parole nostre, sul senso della vita. Lo facciamo tutti i giorni e ogni ragionamento scorre, importante o insignificante che sia, verso un flusso continuo di senso che scende verso il mare dell’oblio e dell’inutilità. Abbiamo pensato, in un abbagliante momento d’illuminazione spirituale, che davvero gli uomini potessero rendersi padroni del proprio destino. Ci è successo quando ce ne siamo andati nel deserto, vestiti di tuniche colorate e stonati da un potente allucinogeno, ingerito o introiettato attraverso qualche dottrina.
Questo ci ha fatto perdere di vista la condizione (dis)umana che affligge ancora la maggioranza degli abitanti del pianeta, poveri, oppressi, affamati, esposti alla guerra e alle malattie. Condizione che toccava anche la dorata civiltà occidentale non più tardi di 70 anni fa, al termine di due guerre mondiali devastanti inframmezzate dalla più spaventosa delle crisi economiche. Generazioni bruciate dalla morte e dalla distruzione, in preda all’incubo della dittatura, dello sterminio e della coazione a uccidere.

Sarebbe facile ricordare a Michele, se ci potesse ascoltare, che la disuguaglianza è la norma, di questi tempi, e che le distanze tra i pochi che vincono e i troppi che perdono e straperdono sono destinate ad aumentare. Quello che lui boccia, però, è proprio quel senso comune che ci porta a fare certi ragionamenti, classificando la realtà come fosse una scala che misura il male minore. C’è sempre un male minore, no? Dove ci posizioniamo in questa scala? Abbiamo avuto fortuna nella vita? Siamo nati ricchi? Abbiamo potuto studiare? Avevamo abbastanza talento per farlo, e mezzi per potercelo permettere? Siamo riusciti a imporci sul lavoro, o quantomeno a trovare un lavoro gratificante e a tenercelo stretto? Abbiamo quello che ci serve? Siamo stati tanto fortunati da conoscere l’amore? Michele a queste domande risponde come uno che la vede nera, ma talmente nera che dice: non mi voglio accontentare. Voglio il massimo.

E così tira il freno a mano e si sgancia dalla scala del male minore puntando al male definitivo. Alla non esistenza. All’assenza che lo rende presente. Ottiene che tutti parlino di lui senza avere il piacere di ascoltarli. Sa già, forse, che si tratta del chiacchiericcio che scandisce l’esistenza di tutti. Quel bla bla bla di cui ragionava Jep Gambardella. La vita prima della morte. Quella che Michele ha fermato perché non trovava un senso a un’esistenza fatta di delusioni in serie e di totale assenza di felicità.

In molti hanno detto e scritto che Michele aveva delle aspettative eccessive e che la vita non ti regala niente, che ogni passo avanti è una conquista che va pagata con i sacrifici. È vero, ma è anche un’ovvietà. Io non conosco la sua storia ma mi sembra di leggerci l’incapacità o l’impossibilità di costruire un proprio percorso di vita. Nel senso: di trovare un coagulo di valori da coltivare attraverso delle esperienze, che possono essere di ogni tipo. Le sollecitazioni in questo senso non mancano e l’arte, la cultura, la musica, lo sport hanno salvato più vite di quanto non si creda.
Su tutto, credo che un problema che schiaccia l’esistenza di molti, nessuno davvero escluso, sia quello di trovare la forza per esprimere compiutamente se stessi. Un percorso accidentato e pericoloso che si compie nel tempo in cui esistiamo. Un tempo che non è mai giusto interrompere, se partiamo da presupposti razionali.

Michele ai presupposti razionali ha dato un calcio. E se n’è andato. Sicuramente c’era dell’altro e quella lucidità apparente rischiarava appena la spaventosa tenebra dell’abisso interiore che stava per prendere il sopravvento. Però ci ha lasciato un messaggio su cui riflettere.

Lo stiamo facendo, in tanti, accettando il gesto comunque generoso che l’uomo suicida (a trent’anni si è uomini, non ragazzi) ha compiuto e che i suoi genitori, affranti, hanno voluto condividere, dimostrando alla memoria del loro figlio che non sempre le nostre grida rimangono inascoltate. Che riusciamo ad attirare l’attenzione se proviamo a esprimere quello che abbiamo dentro, e non serve arrivare all’estrema/ultima azione dimostrativa.

Analizzare la realtà per realizzare di non avere prospettive è uno sforzo che non è inutile. L’assenza di prospettive è uno stimolo supremo, il più grande possibile. Quello che muove la gente anche a gesti estremi in senso propositivo, a riaffermare la propria identità e il proprio volere, e a provare a imporlo combattendo. Ripenso all’esempio di questi giorni, alla vicenda di Enzo Rendina che resta aggrappato a una terra devastata che gli ha tolto tutto: casa, amici, lavoro, speranza. Eppure Enzo lotta come un leone.
E si ritorna a: hai mai PENSATO come sarebbe stato se invece di mollare avessimo LOTTATO?

Ciao, Michele, ti sia lieve la terra.

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