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Quando viene evocata la parola linciaggio nelle nostre menti affiorano sempre le stesse immagini. Un nero con una corda al collo appeso a qualche albero del Mississippi. Per questo è dura pensare che il cappio, tra fine ottocento e primi del novecento, abbia stretto anche la gola di 34 nostri connazionali.

Ebbene si , dopo afroamericani e cinesi, gli italiani furono la minoranza più colpita dalla famigerata legge di Charles Lynch, il colonnello quacchero della Milizia divenuto tristemente famoso per aver iniziato, durante la rivoluzione americana, a punire con estrema sommarietà i ladri che vendevano cavalli al nemico inglese. La Virginia, terra che gli diede i natali, già nel 1782 regolarizzò tale pratica consentendo al colonnello e ai suoi fedelissimi la piena immunità. Fu proprio la non perseguibilità in sede civile e penale e la conseguente impunità a rendere il linciaggio una sorta di metodo giudiziario per folle schiumanti di rabbia.

Dalla Virginia questa abominevole pratica dapprima si spostò sui carri degli uomini che se andavano alla frontiera per poi raggiungere il profondo Sud, dove ottenne la più macabra delle consacrazioni. Nel corso del tempo mutarono gli scenari, le modalità e perfino il numero di partecipanti ai linciaggi ma un elemento non si modificò mai. Gli autori dei linciaggi, lungi dall’essere pazzi esaltati, macellai sanguinari, assassini perversi, uomini ai limiti della marginalità sociale erano sempre onesti e patriottici cittadini americani convinti di infliggere una dura ma necessaria punizione agli sbandati che impestavano le città e le campagne. Il fior fiore della società, talvolta i pilastri stesse delle comunità partecipavano, spesso da protagonisti, ai linciaggi, lasciando esplodere, una volta immersi nella folla, sentimenti aberranti che evidentemente erano ben ancorati nelle loro coscienze.

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Titoli di alcuni giornali americani dopo il linciaggio di 11 italiani a New Orleans

Sentimenti che furono spesso rivolti nei confronti degli italiani verso cui l’opinione pubblica nutriva un disprezzo che poco differiva da quello provato per altre sfortunate minoranze. I nostri connazionali, nell’America a cavallo tra ottocento e novecento, erano mediamente considerati alla stregua delle bestie da soma. I padroni li cercavano avidamente tanto per i salari bassissimi con cui li retribuivano, quanto per la loro capacità di resistere ad orari e condizioni di  lavoro massacranti. Gli altri salariati li detestavano, nel nome di una guerra tra poveri che vedeva i nostri connazionali recitare, loro malgrado, il ruolo di crumiri.

La classe media, infine, provava nei loro confronti un misto di ribrezzo e riprovazione. Nel Sud gli italiani, ritenuti una sorta di “razza” a metà bianchi e neri, venivano mal visti per la familiarità con cui talvolta trattavano la gente di colore. Nel Nord gli si rimproverava di essere degli avidi, quasi che fosse un crimine risparmiare per migliorare la propria condizione sociale e per mandare qualche soldo alla famiglia. Ovunque venivano additati come mafiosi, piccoli criminali sempre pronti a tirar fuori il coltello. “Vendetta è la loro parola d’ordine”, diceva un rapporto del Gran Giurì nel 1891.

Insomma il terreno era troppo fertile di odio, razzismo e impunità perché ai nostri connazionali fossero risparmiati corda e sapone. Il primo cappio intorno al collo di un italiano fu stretto a Viccksburg, in Viriginia, nel 1886, l’ultimo a Tampa, in Florida, nel 1910. In mezzo altri luoghi e altre date: Louisville 1889, Denver 1893, Walsenburg 1895, Hahnville 1896, Tallulah 1899, Erwin 1901, Ashdown 1901, Davis 1903.

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Il linciaggio di New Orleans in un disegno dell’epoca.

E soprattutto New Orleans 1891, il più grande linciaggio di italiani negli Stati Uniti. Tutto cominciò con l’assassinio, il 15 ottobre 1890, del capo della polizia cittadina, D. C. Hennessy. Da subito le indagini si concentrano sui 30.000 italiani che in quel periodo viveva a New Orleans. Arresti indiscriminati, violenze, confessioni e delazioni estorte sotto tortura furono i mezzi utilizzati dalle pubbliche istituzioni per trovare i colpevoli in seno alla comunità italiana. Alla fine le indagini si conclusero con un rinvio a giudizio di nove imputati, che vennero completamente prosciolti in sede giudiziaria. La stampa urlò allo scandalo e si iniziò a parlare di processo farsa. Il montante clima di odio fu cavalcato dalle autorità locali, Joseph Shakespeare, il sindaco di New Orleans, definì gli italiani “individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistono al mondo, peggiori dei negri e più indesiderabili dei polacchi”. Una sorta di pubblico proclama finì sulle pagine di diversi giornali. Lo firmarono eminenti membri della comunità che invitavano il mob a farsi giustizia. La folla rispose. Secondo alcuni 6000 cittadini, secondo altri addirittura 30000, si recarono il 31 marzo 1891 alla prigione di New Orleans e ivi uccisero undici italiani.

Il Regno d’Italia, dopo proteste tanto vibranti quanto ridicole, come in altre occasioni si accontentò del cosiddetto “prezzo del sangue”, un vergognoso risarcimento in denaro con cui il governo federale degli Stati Uniti pensava, e a ragione, di poter risolvere la questione del linciaggio degli italiani. Una triste ma fin troppo realistica vignetta di un nostro giornale negli USA, raffigurava il segretario di Stato americano che porgendo una borsetta all’ambasciatore italiano diceva “costano tanto poco questi italiani che vale la pena di linciarli tutti”.

La storia dei linciaggi terminò soltanto nel 1964. Furono appesi giovani e vecchi, colpevoli e innocenti, neri, gialli, messicani e anche bianchi. Trentaquattro di loro erano italiani.

 

Matteo Minelli

 

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