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di Giovanni Gambini

Sicilia dalle tre punte e dalle mille anime, santi cattolici, torri normanne, leziosità spagnole e parole arabe.
La mia intenzione era molto più umile: volo stagionale PEG-TRA, transfert fino a San Vito in tassì abusivo, una settimana all’ingrasso a mare e cannoli e bagni in ultradefinizione.
Ma il turismo sta a quella terra come la circonferenza sta al centro del cerchio – ottima base di partenza per sprofondare. Ho visitato la tonnara dell’Isola di Favignana, interamente in pietra, una meraviglia con i piedi a mollo in un limpido mare. “L’industria domina la forza”, sotto un leone febbricitante e massonico che beve chinino è il simbolo d’ingresso di Casa Florio, la potentissima famiglia che gestiva tutto il traffico.
Erano tempi in cui il Sud era un centro d’Europa. Palermo era ricca, ricca da scoppiare, piena d’inglesi e francesi e tedeschi. Se la batteva con Parigi per vari primati. Era una donna florida di cultura e bellezza. Ma è impertinente rispetto alle ragioni di questa narrazione addentrarsi nei motivi della decadenza.

La mattanza è la storia di una cultura che produce una lotta. La più grande è quella rivolta verso se stessi, combattendo il più con il più – è quello che i maomettani chiamano Grande Jihad.
L’uomo avverte l’intimo e collettivo bisogno di oggettivare questa lotta universale fra la scintilla divina e la forza bruta, trasponendola in una messinscena. La trovi nelle feste-teatro balinesi, in forma rituale, uomo batte drago, la gente va in trance, o nella tauromachia spagnola, uomo guarda toro, tutto è fermo, assalto, morte, il popolo grida.

La mattanza è più e meno allo stesso tempo: tecnicamente è uno stile di pesca del tonno rosso, quasi un’attività imprenditoriale ante litteram; dunque non è un semplice divertissement. Ma ha un volto così rituale, mistico, antico, di sciabordio del mare, preghiere pagane, di canti arabi e tattica, di pescatori che sfidano le profondità e tornano con la luce del relativo premio, è un miscuglio così equilibrato e siculo, come l’impercettibile relazione che viene ad instaurarsi fra un cibo e il suo vino, che alla fine pur avendo una ovvia funzione pratica diventa la più teatrale di tutte. Un tonno non è un pesce da acquario…è un animale grosso, pericoloso.

Il Rais di Favignana (l’isola del Monaco, secondo i marinai arabi – c’era solo un eremita, un tempo) è una leggenda vivente, figura misteriosa, patrimonio immateriale (letteralmente, prestigio conferito dalla Regione Siciliana), vecchio e il mare, ma soprattutto un uomo franco, cortese e di poche parole. Dall’arabo Ras, capo. Il boss dell’acqua salata.
Ricopre il difficile ruolo di ultimo testimone di una tradizione plurimillenaria che è spirata fra le sue braccia, o forse è solo in sonno e può ancora essere risvegliata, i primis attraverso la conoscenza.

Di seguito riporto stralci della mia fortunata conversazione con quest’uomo quasi sacro.

Rais, mi spieghi gli oneri e gli onori della sua figura
È tutto, è tutto.

Approfondisca. Siamo un pubblico di terraioli.
Novecento anni di Mattanza qui a Favignana. Una catena ininterrotta di Rais che si accollano la responsabilità di ogni singolo dettaglio. Scelgono i propri santi a cui aggiungono di nuovi. Pregano verso levante a capo scoperto con la propria ciurma, cinquanta sottoposti che costruiscono un’isola in mezzo al mare. 70 km di cavi d’acciaio, tremila galleggianti,7 km di rete. Secondo i venti e l’impostazione e la tattica per intercettare il tonno, guidarlo, incanalarlo sempre più dentro nella trappola fino alla camera della morte.

E poi?
E poi i canti, lo sforzo, infine il tonno è preso.

Lei parla di religione e canti. Quanto influisce in questa tecnica la varietà di culture che compongono la Sicilia?
Si può non credere, si deve pregare. Altrimenti la gente s’incazza; porta male.
Ci sono innumerevoli santi, Antonio, Giuseppe, Pietro protettore di tutti i tonnaroti, cinque o sei Madonne, una schiera di sante protettrici. In tempi in cui si parlava troppo di divisione, scelsi personalmente san Remedio della Val di Non per dare un messaggio d’unità nazionale.
Ma ci sono anche le scialome (salam), le nenie arabe dello sforzo, che scandiscono le varie fasi della cattura del tonno. Mattanza deriva da matar spagnolo. Molte culture influenzano questa pratica.” (che mi pare più che altro pagana, così come tutta la Sicilia e gran parte dell’Italia, ma non m’azzardo a dirlo).

Qual è la pesca che ricorda con più piacere? Quella dove si prendono più tonni. 540 kg il più grande. Nel ’98 fu una grandissima mattanza.

Mi entusiasmo, gli chiedo se la tonnara ha un futuro.

I tonni ci sono mi risponde. Il mare ne è pieno. È una falsa credenza che siano sempre meno.
Sono gli stessi di sempre, è l’uomo che s’è fatto “cugliuni”. Il problema sono le quote europee, dal pesce agli agrumi. Le leggi sono deboli, il pesce è importato –radioattivo – dall’Est. D’inverno mi invitano su nel Nord Italia per cucinare il loro tonno. Quando vado e lo apro è pieno di tumori. Questo Paese ha materie prime per servire tutto il mondo, ma è costretto a passarci sopra con la palla meccanica.

Conversiamo un altro po’. Mi spiega che gli antichi non facevano nulla a caso; che la mattanza, fra le mille altre cose, è una pesca molto rispettosa dei cicli naturali perché intercetta tonni che già hanno deposto, si sono riprodotti, e ripulisce il mare, perché il tonno è un pesce che mangia altri pesci, specie gli azzurri, e la sua cattura controllata riequilibra il sistema.
Sono sicuro che se l’anno prossimo si fa e la caliamo bene, se ne prendono dai mille ai tremila.

Infine, io manifesto il dubbio finale, logico, che mi ha accompagnato lungo tutta la conversazione:
Rais
Dica
Non mi torna una cosa. Se i tonni ci sono, la tradizione è amata da tutti, i soldi ci sono e il pesce è buono, allora perché diavolo la tonnara si è estinta?
….
Per colpa di una femmina.

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