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Solo mani vere scrivono poesie vere.
Io non vedo alcuna differenza di principio
tra una poesia e una stretta di mano”
(Paul Celan)

Now I can change the world
With my own two hands
Make it a better place
With my own two hands
(Ben Harper)

di Pancrazio Anfuso

Ho preso la penna e un foglio di carta, l’altro giorno, per scrivere una lettera. Con la sinistra tenevo il foglio, con la destra scorrevo lungo immaginarie righe orizzontali.
Tenevo la penna piegata a 45 gradi e seguivo il gesto con la testa reclinata nella stessa direzione. Faticavo e mi ricordavo del callo che mi veniva al tempo antico dei compiti in classe. Scrivere sfiorando la tastiera di un Mac viene più facile. Si può correggere e si guadagna tempo, ma l’estensione della tecnologia fa perdere alle mani il contatto con le cose vive.

Penso alle mani rappresentate da Tina Modotti: quelle della lavandaia che sbattono e strizzano i panni, incuranti dell’acqua gelida, quelle grandi del contadino che tengono sicure la pala, quelle del burattinaio, forti e delicate. Sono mani operaie, che raccontano un tempo in cui il lavoro sognava il proprio riscatto definitivo dalla fatica e dal dolore. Usate per guadagnarsi il pane e il salario. Negate, spesso, alle loro infinite possibilità: le mani sono lo strumento che consente al pensiero di diventare azione, più di ogni altra parte del corpo deputata a esprimersi.

Meglio della voce, perché verba volant.
Meglio dei piedi, a meno che non si ragioni di Maradona, che a pensarci bene, però, ha scritto la storia con la sua mano de Dios, contro l’Inghilterra già attaccata da Galtieri alle Malvinas.
L’arte si fa con le mani. Le mani possono modellare la materia, modulare il suono su uno strumento musicale, raffigurare il mondo o dare corpo a un pensiero astratto. Sono strumenti d’amore, che danno e restituiscono emozioni. Sono sensori del dolore e sostituiscono la vista, al buio.
Possono anche fare a meno di qualche dito e rimanere prodigi di natura: la mano sinistra di Django Reinhardt e la sua vertiginosa chitarra jazz tzigana.

Grazie alle mani ha preso forma l’intuizione. Abbiamo imparato ad accendere fuochi e a costruire utensili sempre più perfetti, a uccidere prede e nemici. Abbiamo impastato elementi per trasformarli. Un gesto che ripetiamo ogni giorno, quando prepariamo da mangiare.

Impastare il pane è una grande emozione. È un gesto che si può fare con forza oppure lentamente, esercitando una lieve pressione e un movimento circolare. Ipnotico. Insistito. Che produce una forma impossibile da creare altrimenti, unica e perfetta, appena levigata, elastica.

Mi affanno a sentire il mondo attraverso le mani e cerco di abbandonare la tecnologia che non mi è necessaria. Gioco con la penna e con la chitarra. Tocco le persone e le cose. Conto. Mi riscopro e mi ricordo, cercando di sfuggire alla meccanica dei gesti mandati a memoria. Sento la fatica di chi ha dimenticato il lavoro manuale e ricordo le mani di mio nonno, che costruivano tutte le cose che servivano a una quotidianità contadina. Faceva mobili e utensili, intrecciava cesti, costruiva sedie, ferrava asini e disegnava ghirigori col coltello con cui si radeva. Usava anche la penna, però, e che penna. Viveva attraverso il tatto.

Io invece uso le mani come tutti, senza pensare. Ma basta appoggiarle delicatamente una sull’altra per ascoltare la loro sensibilità. Sentirle emanare calore. Usarle per comunicare col mondo circostante o poggiarle sulla materia inerte per dare forma a un’idea. Sporcandosi, come si sporcano i polpastrelli di un edicolante, sempre neri, sotto i guanti che coprono le mani lasciando libera la punta delle dita.
Mani che toccano la carta. Tangibile, conservabile, concreta.
Perché scripta manent.

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