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di Antonio Cipriani
Gli anni non contano quando abbracci un amico. Gli anni di distanza, di vite vissute in luoghi lontani, facendo cose che l’altro ignora. Soffrendo, cantando, gioendo. Senza scriversi e senza telefonarsi, come se ogni cosa avesse il suo spazio, e il destino scavasse trincee.
Ecco, questo il primo pensiero dopo l’abbraccio con Alberto, amico di tanti anni fa e amico ritrovato oggi. L’ho visto che vagava lungo il marciapiede assurdo di piazzale Freud, davanti alla Stazione Garibaldi, a Milano dove per caso ambedue siamo finiti a vivere. Da lontano mi è apparso diverso, più piccolino, sembrava un viaggiatore sbarcato da Marte in attesa di un taxi.
Delle trincee dicevo. Quelle che l’esistenza scava, le trappole o i ripari. Quelle che il tempo ha tracciato sulla faccia, rughe come trincee, parafrasando Karl Kraus. Guardandoci negli occhi ci siamo specchiati nelle stesse ombre. Abbiamo ripercorso il braccio di mare che ha separato le nostre libertà. Il vento, le paure, le incazzature e le speranze, segni incisi sul viso. E il viso, il suo per lo meno, che non riesce a perdere il candore della rivoluzione.
Fatto sta che, trincea dopo trincea, tra un caffè e un bianchetto alla Cantinetta, con i ragazzini che urlano giocando e i padri che urlano al telefono e il quartiere che se ne frega languido in un pomeriggio autunnale di sole tiepido, eravamo gli stessi di venti o trenta anni fa. Sempre sulla soglia di un progetto nuovo, mettendo insieme forze e idee, perché siamo a un passo da tutto. E anche se l’utopia si sposta ogni minuto un minuto più in là, noi ci siamo.
Noi ci siamo. Le rughe e l’età sono un dettaglio. Noi ci siamo perché siamo esattamente come eravamo, ma nello stesso tempo no. Ci siamo raccontati venti anni in una manciata di minuti, qualche pensiero sparso sul passato e sugli amici comuni, poi Alberto col suo sorriso ha detto che poteva bastare col passato. La memoria ce la portiamo dentro, non c’è bisogno di perdere tempo, proprio noi, per ritirare fuori quello che è stato. Adesso parliamo di adesso e di quello che facciamo qui, ora. E che faremo per rovesciare quello che non ci piace.
Il passato ci ha portato come corrente di fiume a sedersi uno di fronte all’altro alla Cantinetta. Il presente è Luca che porta patate arrosto e pane e salame per merenda. Seduti a quei tavoli, con quello stesso bianchetto tante pensate e tanto futuro sono stati sgranati in azioni vere e rivoluzionarie. Siamo ancora qui per questo. Parliamo di arte, di bellezza, di quartieri che non cedono alla prepotenza del denaro. O per lo meno provano a resistere, a inventare nuovi linguaggi e dialoghi fuori dagli schemi. Parliamo di Isola, di Arci Bellezza, di Perugia centro di un mondo nuovo che si sta inventando nei quattro metri di spazio infinito dell’Edicola 518.
Di questo parliamo. Del resto ci interessa poco. Nella testa, nel cuore e nell’ardore di una vita senza pelle addosso è sempre risuonata maestosa la domanda che non pretende la risposta rassicurante ma che percorre il dubbio.

Quale azione scegliere, prevedere, ereditare?
Un pezzo di pane a cane senza museruola
è meglio che questo scrivere in bianchi
versi di getti lacrimogeni, a branchi
di gente tutta senza importanza o museruola
che scrive vincendo e perdendo tutte
le cause: mentre fuori il tempo gode
e esplode, senza la tua intima perplessità
intimità di cose andate e perdute mentre
tutt’occupata a scrivere versi bianchi
andavi leggendo quel che non si potè
fare.

Già, un pezzo di pane a cane senza museruola, mi saltano in testa i versi di Amalia Rosselli che proprio qualche giorno fa mi ha spedito un’amica di sempre, per ricordarci chi siamo e perché percorriamo le strade del nostro sogno indelebile. Farsi ingoiare dalle cose sensate, scintillanti e ragionevoli, è un attimo. E in quell’attimo c’è l’abiura, c’è la fine di tutto.
Toccando il foglio come si toccasse il tessuto del cuore, ecco che esplode la voglia di percorrere questo spazio negando versi bianchi e riempendo di furia e anarchia l’incedere dell’animo, che si flette come un giunco bambino di ogni età. Perché poi non conta altro che questo flettersi di giunco e spalancarsi al caos della vita. E che ogni passo è l’intero percorso che abbiamo vissuto e che vivremo e per questo a ogni incontro ci sembra di essere stati sempre così, accanto, nella battaglia.
Ci sembra perché è così. E saltando fuori dalle trincee, col sorriso che illumina gli occhi, ci ritroviamo che quello che abbiamo sempre sognato è quello che siamo. E che niente sarebbe stato uguale se non fossimo stati così ostinati e privi di buon senso. Niente sarebbe mai stato inventato senza aver ceduto alla pazzia. Con cuore puro.
Con Alberto ci vedremo al Bellezza per mangiare le cotolette del vecchio cuoco che le fa buonissime. I miei appunti su progetti e idee sono diventati questo scritto, per ora. Ma sicuramente faremo cose insieme qui a Milano, con i cuori ruggenti di Emergenze e di Edicola 518. Questa lettera d’amore e anarchia è dedicata a questo incontro; a te Alberto, vecchio amico che lotta. E a te Paolo, giovane amico che lotta.

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