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di Andrea Frenguelli

 

L’epica della storia ci circonda: dai libri delle elementari alle lapidi che quasi nessuno legge, i vincitori ci raccontano le gesta dei propri martiri, dei propri eroi, delle grandi personalità che hanno assecondato il moto perpetuo del progresso. Essa ci accompagna nostro malgrado: la storia in fondo l’abbiamo sempre letta così, una lista di date, una serie di nomi illustri, qualche luogo che, sì, ci ricorda qualcosa, ma poi non riusciamo neanche a visualizzare. Pochi fortunati però – tra chi ha una nonna un po’ rincoglionita ma loquace o chi va alla ricerca dei testimoni – hanno accesso alla dimensione più umana della storia: la memoria.

Non ci avventureremo qui nella disputa storiografica del confronto tra storia e memoria, ci limiteremo a dire che più bistrattata e sottovalutata è l’epica della seconda: quella sottobranca della storia che porta ad interessarsi ai menù vegetariani di Adolf Hitler o che ci trova affascinati e quantomeno sorpresi nello scoprire che Winston Churchill, a Yalta, mentre disegnava i confini dell’Europa contemporanea, era strafatto di morfina.

Sono particolari, piccoli gesti di grandi uomini ma anche grandi gesta di piccoli uomini sconosciuti che – spesso loro malgrado – contribuiscono a creare il grande mosaico della storia e della memoria e a Perugia, città di individui prima di che di masse, non mancano di certo.

Per scoprire il nostro primo eroe dei sottosuoli cominciamo da capo, dalla data che secondo molti rappresenta uno spartiacque nella storia della città: il venti giugno 1859.
La situazione, apparentemente riassumibile in uno scontro tra lo Stato della Chiesa e rivoluzionari anticlericali in odore di piemontismo, è tutt’altro che semplice: accadde che, sei giorni prima del 20 giugno, un gruppo di notabili della città – che oggi ricordiamo per lo più per vie, piazze e strade come Danzetta, Bruschi o Guardabassi – fecero irruzione a Palazzo dei Priori, residenza del potere temporale papalino in città, nella veste del delegato apostolico monsignor Giordano.
Il gruppo era abilmente capeggiato e protetto da un’altra eroina, anch’essa condannata a toponomastica: la principessa Maria Bonaparte Valentini, la quale in virtù di una parentela con l’Imperatore Napoleone III, pensava che ciò bastasse a garantire alla sua iniziativa, se non la protezione dei francesi, almeno il lassismo di papa Pio IX che si era poco tempo prima ritirato dalla Romagna senza grandi spargimenti di sangue.

Ciò che di lì a poco ebbero a scoprire la principessa Valentini, la sua accolita di rivoluzionari liberali con cilindro e monocolo e i 14.000 entusiasti insorti perugini del tempo, fu che monsignor Giordano – pavido e remissivo come il miglior prelato – aveva già telegrafato a Roma e che duemila armigeri mercenari svizzeri, guidati dal panciuto e spietato colonnello Schimdt già marciavano sulla strada per l’Umbria.

Cominciarono allora 6 giorni di trepidazione e di attesa: la resa era fuori discussione ma il governo provvisorio poteva contare su poco più di 800 perugini armati e qualsiasi rinforzo piemontese – vano fu infatti il viaggio a Torino di Nicola Danzetta – sarebbe arrivato ormai a cose avvenute.
Cosa accadde, in poco più di due ore, nel pomeriggio del XX giugno è cosa nota ai più: dei 25 perugini trucidati, delle violenze ai danni di donne, anziani e bambini degli spietati mercenari o dell’accorato resoconto del massacro reso dalla famiglia americana Perkins, ospite al Brufani, non parleremo e potete trovare abbondante resoconto in rete o, meglio, nell’incompiuta storia perugina del Ranieri di Sorbello.

Ci concentreremo quindi sulla mezza giornata immediatamente precedente quell’esplosione di epica e di orgoglio che non pochi perugini portano ancora oggi fin sulla pelle. Partiamo da un presupposto non da poco: la sera prima, i frati di Santa Maria degli Angeli ebbero ordine da Roma di prepararsi a sfamare, ma soprattutto a dissetare, 2000 bocche. Da tanta premessa, è lecito aspettarsi che gli armigeri papalini fossero perlomeno alticci già prima di depredare le cantine della città: il vino, ogni uomo d’arme del tempo lo teneva ben presente, dà più coraggio delle promesse di gloria e di ricchezze ed è, in definitiva, il miglior amico del soldato.

Come dicevamo, l’attesa a Perugia per l’arrivo degli svizzeri era tanto concitata quanto sicura premonitrice di tempesta e il cielo di quell’ultimo giorno di primavera – tra un lampo, un tuono e uno scroscio d’acqua – pareva annunciare la sventura. Tanta era la paura, che tra Santa Maria degli Angeli e Perugia i mercenari di Schmidt non trovarono praticamente nessuno. A Ponte San Giovanni, al tempo composto da poco più che quattro fattorie di possidenti e alcuni miseri casali riuniti in un borgo, non c’era anima viva: solo pochi coraggiosi avevano deciso di restare con le loro famiglie.
In particolare la famiglia Angeletti decise di rimanere a guardia del proprio podere, assieme ai suoi lavoranti. Per ingannare l’attesa e la paura, il gruppo si abbandonò a un lauto pranzo, abbondantemente innaffiato dal vino del cantiniere di famiglia: Pietro Castellini.
Ed eccolo il nostro eroe: dopo la pantagruelica mangiata, con tutta probabilità completamente sbronzo, il ventenne Pietro si abbandonò sul suo giaciglio ad una proverbiale pennichella, con l’irriverenza che solo gli stolti e gli eroi hanno di fronte al pericolo.

Passò poco meno di mezz’ora, di sicuro non abbastanza da smaltire i postumi, che il giovane vinaiolo venne svegliato dal rumore degli zoccoli dell’avanguardia svizzera in marcia a cavallo, come una lugubre marcia di morte. Corso fin nell’aia, Pietro riconobbe tra gli svizzeri, l’infame sbirro papalino – riscossore dei tributi sulla manomorta, ossia il patrimonio di ecclesiastici e religiosi – che pochi giorni prima, ma dopo non pochi anni di angherie, aveva sonoramente legnato assieme ad altri giovani del ponte, inebriati questa volta non dal vino ma dal un malcelato desiderio di libertà.

Il gendarme, forte questa volta dei suoi compagni, riconobbe anch’esso in Pietro uno dei suoi assalitori e decise che era ora di fargliela pagare: baldanzoso e arrogante come il Potere stesso, si avviò verso il casale, calpestando a cavallo una deliziosa aiuola di violette che la compianta Donna Angeletti aveva piantato con minuzia poco prima della sua morte.

Il nostro Pietro non ci vide più: scattò di nuovo verso il suo giaciglio all’interno del casale e, da sotto il letto, trasse un arrugginito schioppo, buono forse per la caccia alla lepre.

Pietro sparò e colpì… niente. Di tutta risposta, almeno un centinaio di svizzeri spararono all’unisono contro Pietro e il casale, non colpendo il primo ma distruggendo l’intera facciata del secondo. Pietro, eroicamente sconsiderato, si fece di nuovo avanti o forse, chi sa, semplicemente non fece in tempo a far altro che ricevere, questa volta a suo indirizzo, un ulteriore scarica di pallettoni che ne dilaniarono il corpo. La povera moglie, assistendo a tutta la scena, si fece fuori dal casale stringendo al petto la figlioletta del giovane cantiniere: i gendarmi, eccitati dal sangue, le strapparono la piccola di mano, gettandola nel Tevere tra risa e grida di scherno.

Tutto ciò che sappiamo di questo giovane, è frutto della meritoria opera di un comitato di romantici e libertari dedicato allo stesso Pietro che, poco meno di un decennio fa, coniò una frase perfetta con cui – mi pare il minimo – brindare alla memoria delle gesta di questo eroico sconosciuto. Amici e lettori di Emergenze, alziamo i calici a Pietro Castellini: anonimo martire, fulgido eroe, pessimo tiratore, incauto soggetto della città di Perugia.

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