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di Luca Mikolajczak

Vagare in una città squisitamente desolata con spirito errante mi conduce in una della piazze intorno a cui ruotava la vita in epoca medievale, piazza Piccinino, oggi affollata più da automobili che da volti umani.

Il desiderio quasi voyeuristico di scandagliare frammenti di vita dietro a insegne di magniloquenti dinastie è ormai insito in me e trova la sua ignara vittima nella dimora nobile dei Marchesi Bourbon di Sorbello.

Accolto da una cordiale e ossequiosa guida, inconsapevole ancora dell’onere di cui il nostro malcapitato Cicerone è stato insignito nella conquista del progresso, comincio ad appuntare sul taccuino cenni storici di una delle famiglie più illustri di Perugia: scopro innanzitutto che i marchesi Bourbon di Sorbello erano titolari di un feudo imperiale di primo grado, quello del Monte di S. Maria Tiberino, di eminenza tale da essere noti come i “marchesi” per antonomasia, e che solo nel XVIII secolo il ramo di Sorbello, staccatosi nel ‘400 dal ceppo principale, si stabilisce nell’odierno ridente capoluogo umbro, in seguito al matrimonio di Giuseppe I con la contessa Marianna Arrigucci, proveniente da una delle migliori famiglie della città. 

Proprio uno dei loro sedici figli (non c’è di che stupirsi, i diversivi dei nobili per passare le serate erano gli stessi dei meno abbienti), Uguccione III si trasferì dalla poco degna dimora di via Larga, lontana allora come oggi dallo struscio cittadino, per acquistare il palazzo che oggi visitiamo, già degli Eugeni e prima ancora degli a noi noti Oddi, in una zona ben più prestigiosa e chic.

Ma agli occhi di un provetto letterato del Duemila, non può passare inosservata la figura del fratello di Uguccione, Diomede, fine erudito e bibliofilo -tra i testi da lui acquisiti spiccano la Encyclopédie Française e le opere di Voltaire, Rosseau e Beccaria- che, durante la formazione presso la Reale Accademia di Torino, al servizio presso i Savoia, conobbe niente meno che Vittorio Alfieri, compagno di studi e merende. L’amicizia tra i due è forte e sincera, come testimonia il dono delle Tragedie con dedica dell’Alfieri e del suo ritratto al marchese, privilegio riservato a pochi fortunati intimi.

Giunto quasi al termine della mia esplorazione, vengo attirato come una calamita, da cultore e amante vanesio del bello, dai ricami gelosamente racchiusi in teche, che nulla hanno a che fare con i centrini che ancora addobbano qualche salotto buono: la ricchezza e la plasticità dei motivi li fa somigliare a piccoli bassorilievi in tessuto. Questi manufatti sono il prodotto della creatività e dell’ingegno di una delle più illuminate e concrete artefici dell’emancipazione femminile, che il fato ha voluto sposasse un membro della famiglia ormai Ranieri di Sorbello (in seguito al matrimonio dell’ultima discendente Altavilla con il conte Giovanni Antonio Ranieri nel 1859): parliamo della coppia, stile Kate-William, formata dall’americana Romeyne Robert e dal rampollo Ruggero, Ufficiale di cavalleria e Amministratore del Comune di Perugia.

Romeyne era una donna senz’altro in gamba, non c’è che dire: invece di adagiarsi sulle fortune di quel buon partito del marito, convoglia le sue energie in un’iniziativa imprenditoriale senza precedenti, una Scuola di Ricamo presso la sua villa del Pischiello (sui dolci colli attorno al Trasimeno), imponendo alle sue cento operaie, che potevano comodamente lavorare a casa, un pagamento tramite corrente postale, così da svincolare i redditi da ogni controllo di padri o mariti, e facendo pubblicità con depliant accattivanti e garbati. L’introduzione di dazi e l’impossibilità di controllare in modo capillare la produzione inducono la marchesa a chiudere la fabbrica e requisire tutto l’invenduto, ma ancora oggi, leggenda narra, qualche signora, contravvenendo alla volontà di Romeyne, diffonde la tradizione del mitico Punto Sorbello.

Leggendo il cursus honorum del figlio Uguccione c’è il rischio di rimanere pervasi da un leggero senso di inferiorità: docente di Letteratura Italiana a Yale, funzionario di più ministeri italiani, insignito di una medaglia al valore profuso nel salvataggio degli Alleati, inviato quindi della Delegazione Italiana alla conferenza di Pace di Parigi, è stato brillante giornalista di testate come “Il Corriere della Sera”, direttore di istituti italiani in America e autore di libri capitali della storia perugina, uno su tutti “Perugia della Bell’Epoca”.

Insomma, il caro Uguccione ha senza dubbio ottemperato al motto della famiglia “scribere legenda facere scribenda”, ossia “scrivere cose degne di esser lette fare cose degne di esser scritte”.

E se prendessimo esempio?

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