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di Manuela Iannetti

È agosto.
Il mese dei propositi mancati, deposito delle intenzioni migliori sacrificate sul fondale dei giorni attivi.
È agosto, e io voglio dare un senso alle ore inevase, alle strade deserte del ferragosto incipiente e alle vacanze intelligenti di tutti gli altri, tirando a sorte tra vaccinazione antitetanica, pendenza Eni-gas&power e riscatto Inps della laurea.
È agosto e ho deciso che andrò a perorare il cambio della carta di identità. All’Anagrafe centrale.
Impavida.
Nel tragitto verso gli uffici di via Giulio scaccio i pensieri, saggi, che si affollano, in modo sciocco: l’ingorgo è letale per le decisioni, così come per il traffico.
Una voce mi dice, ma è molto confusa, che non è una buona idea.
La mia carta d’identità non è scaduta. Non l’ho smarrita, né me l’hanno rubata. Non è nemmeno strappata, a dire il vero; non del tutto almeno.
È una specie di puntiglio perfezionistico, quello che mi muove. La carta si è sgualcita, lungo la linea centrale; si è creata una piccola ferita, un solco identitario e, in qualche misura, il timore che la separazione dei lembi porti via con sé l’obnubilamento di me stessa mi inquieta oltre ogni elementare ragionevolezza.
E poi ho cambiato residenza da poco; possiedo un foglietto volante e microscopico come i tanga delle modelle dove si dice che io sono io e quella io non abita lì dove dovrebbe, e dove dice la mia carta, ma da un’altra parte, scritta in un blu pervinca tutto sbavato che devi proprio volerlo sapere, dove abito. E siccome c’è pure scritto che se lo perdi te lo rifanno una volta sola, il foglietto, da qualche tempo a questa parte mi sono convinta che quando toccherà a me perderlo – perché capiterà – succederanno avvenimenti terribili, come rimanere ostaggio all’imbarco di qualche low cost, nel tentativo vano di attestare la mia identità doppia e lacera o, massimo terrore, prigioniera della vergogna dentro le cucine fusion di qualche chef rampante, dove sorridenti signorine esigeranno senza appello la prova provante che sono proprio io stessa medesima a voler spendere inopinatamente tutti quei soldi, con la Master Card appena strisciata.
E poi sì, lo faccio anche per tacitare la compulsione metodica che mi anima, quando mi inchiodo ai quadretti della Moleskine per stilare improbabili liste di intenti, da soddisfare con ordine e a capo chino, come un lavoro sporco ma da compiere, manco venisse domani la fine del mondo e mi facessi trovare impreparata sui propositi. Nemmeno dovessi dire alla morte: «Mi scusi sa, ho ancora da sbrigare i punti 8 e 9… Abbia pazienza e torni più tardi».
In fondo in fondo, non ci vado nemmeno volentieri, all’Anagrafe centrale, ché l’anno scorso, l’ultima (e unica) visita era finita maluccio, con un articolo di protesta sull’edizione cittadina di un quotidiano nazionale, a denunciare scortesie razziali e cafonaggini locali. Come dire, l’orgoglio ferito, ma salvo l’onore.
Quindi lo so che parto sfavorita.
Così, all’arrivo, fuori dalle scale di pietra, mi guardo intorno circospetta come una dissidente del sistema, sbirciando sui muri alla ricerca di foto segnaletiche che riportino il mio nome e croci rosse a sbarrare il volto di chi proprio no, non è ammesso. La mia missione è meno eroica dei rivoluzionari alla macchia, ma il coraggio e la follia sono due lati della stessa medaglia, anche quando si applicano a sproposito.
Per tutti questi motivi, ho deciso di non andarci da sola.
A mezzo metro da terra cammina al mio fianco una massa di pelo color albicocca.
È Oliver. E Oliver è entusiasta e morbido e bellissimo, e questo dovrebbe bastare a distrarre il prossimo facendo virare la conversazione a mio vantaggio, quando l’argine della consuetudine cercherà di opporre la giusta resistenza… Se non puoi avere protezione e forza, meglio giocare la carta della tenerezza. Visto che con Oliver quella dell’intelligenza proprio non si può giocare. Del resto, entrambi sappiamo che è una faccenda tutta femminile (quella della forza, non quella dell’intelligenza). E in guerra ognuno gioca le carte che ha.
Mentre solchiamo l’atrio, ripeto mentalmente il mio mantra: «Sì, ha ragione, la carta non è scaduta ma vede è tutta consumata e poi si sta per spezzare in due e poi prendo molti aerei e lei capisce sarebbe spiacevole rimanere a terra, sì lui è Oliver ha visto che simpatico no non morde sì con i bambini è tenerissimo eh questi son cani no non me ne parli, comunque non si è mai certi che un lato sia il sinistro del suo destro e viceversa e poi ho cambiato residenza ecco il foglietto son certa lo perderò e no non abito lì da molto lo so ma non può proprio fare niente e sì ho le foto».
Il primo sbarramento, tra me e il trionfo, è il Centro informazioni, lato est, corridoio due. Forse qui non mi riconosceranno. Nel dubbio però, tengo il profilo basso e lo sguardo penitente.
«… ’Giorno».
«’Giorno…»
«Desidera?»
Mostro la carta, con sicurezza.
«Dovrei rifare il documento».
«Dice? Ma non è scaduto».
… Appunto. Mantra. Ad alta voce, questa volta. È il livello uno ma non si sa mai.
Inaspettatamente, la convinco. Forse per stanchezza, forse perché sono le 8:01 e la signora dello sportello accettazione sta pensando che la giornata non butta al bello nemmeno per lei.
Così guadagno l’accesso al girone infernale del corridoio di attesa.
Codice prenotazione: H48.
Monitor a disposizione: uno.
Altezza: cinque metri da terra.
Corpo del carattere: 8.
C’è gente che ancora aspetta la chiamata da generazioni, passandosi di padre in figlio il foglietto numerato, persa nel gorgo nemico del display.
Oliver intanto fa amicizia: davanti e sopra le panchette di metallo – ghiacciate dall’aria polare che spara sulla folla inerte senza pietà – sostano due coppie, una ragazza che sembra aspettare l’autobus, una badante con il suo carceriere (uno di quei vecchi arcigni che fanno ricredere sui luoghi comuni legati alla terza età) e due cinesi che barano sull’altezza, per la precisione allo sportello 12. Il mio.
«Uno e setanta».
«…»
«Sì sì, uno e setanta. Siculo siculo».
Sorrido senza farmi vedere.
«… Ma a me sembra più basso, il suo amico…»
«No no, uno e setanta. Pelché io setanta e cinque, lui poco poco…»
Provo un moto istintivo di solidarietà per l’impiegata. Errore gravissimo, di cui mi accorgo dopo pochissimi istanti. Mai solidarizzare con il nemico. Ma ormai è fatta.
Dopo soli quarantacinque minuti e in assenza di anima viva sia davanti sia dietro i diciannove sportelli restanti, arriva il mio momento.
Spavalda, mi avvicino: mantra, Oliver, tutto il repertorio consolidato.
Ma nemmeno la seconda impiegata oppone resistenza. Gongolo silenziosamente. Ho le chiavi del regno. E l’asso nella manica lo porto al guinzaglio.
Da sotto il vetro che separa i nostri mondi, la signora mi allunga la busta da compilare per sottoporre la richiesta al sindaco. Distrattamente, con gesti neutri e svogliati da città d’agosto, stacca la penna biro legata con la cordicella nel suo campo da gioco. Poi la domanda di rito:
«Che ce l’ha le foto?»
Sul suo volto, mosso in maniera nevrotica dalle mandibole che centrifugano una gomma da masticare ormai ubriaca, si legge in modo visibilmente eloquente che non ritiene la cosa possibile nell’orizzonte degli eventi il loro possesso.
Superiore alle energie negative che provengono dal cuore di pietra anagrafico, compilo il modulo con indifferenza. Poi, serafica, senza nemmeno alzare lo sguardo, infilo le tre istantanee sotto il vetro.
«…»
Silenzio.
«…»
Alzo la testa.
«Eh, signorina, non le posso mettere».
«…»
Rumore di mandibole.
Stupore e vaga inquietudine.
«Prego?»
«Queste foto. Non le posso mettere. Non le fanno onore».
L’inquietudine diventa ufficiale.
Che donna, penso. Ironica fin dal mattino.
Ma non mi scompongo. Sarà anche una luminosa mattina di agosto, però io devo andare a lavorare, per cui mantengo la posizione e continuo a compilare il modulo, buttandola sul simpatico e fingendo disinteresse.
«Non le piacciono?»
«Certo… Si vede che è lei, non discuto. Ma quando le ha fatte?»
«…»
Il disinteresse dura poco.
Oliver intanto si affaccia con le zampe sul bancone, con l’aria della festa e la solita intempestività tipica dei maschi.
«L’anno scorso».
È un attimo, ma è troppo tardi. Sento salire, irrefrenabile, il tranello giustificatorio:
«Sì, ero un po’ più in carne, ma sono io. E poi non è un book da modella no? È un documento di identità».
Ammicco, cercando volenterosa l’assenso.
Ma l’impiegata coglie la defaillance e affonda, impietosa.
«La consuetudine prevede che le foto non siano più vecchie di tre mesi… E poi sa, il documento dura DIECI ANNI».
E la madonna. Ho capito, ma per l’appunto, vorrei dirle, non le sfugge la sottile ironia del tutto? Devo mettere una foto di meno di tre mesi perché altrimenti nei prossimi dieci anni non mi riconosceranno…
Niente da fare. Oggi il Piave ha mormorato, per cui non si passa.
La guerra psicologica dura cinque interminabili secondi. Poi cedo. Fanculo, è agosto, perché deve stare a discutere?
«Ok, e quindi? Che cosa devo fare?»
«Vada qui fuori, c’è proprio uno studio…»
Eccerto. Magari è pure di un suo amico.
«Io la aspetto, eh. Non dovrà nemmeno rifare la coda».
Che animo nobile. Vabbé. Usciamo. Io, Oliver, le foto vecchie, il tesserino nuovo e tutto il resto (sì è un Golden, no ritorno, grazie, prego, avanti, cosa deve fare, ah le foto, venga venga).
Lo studio fotografico è una specie di stanzino disadorno con fototessere ingiallite di gente presumibilmente morta, sparse qua e là sul bancone a testimonianza della perizia fotografica della proprietaria. Una foto è per sempre.
Mi siedo, luce in faccia.
Sorrido (lo so che si deve sorridere), mi giro di tre quarti (non so perché, ma so che ci si deve girare di tre quarti), aspetto.
«…»
Niente.
Nemmeno la fotografa è contenta, stamattina.
«Le spiace se le tiro su un po’ la manica?»
No, non mi spiace.
«Metta un po’ in avanti il mento».
Metto in avanti il mento.
«Sorrida».
Sorrido.
«Di più».
Di più.
«No, di meno».
Di meno.
«Dovrebbe cercare di essere meno… Rabbuiata, ecco. Si guardi nel monitor».
Mi guardo nel monitor.
Sembro Medusa. Con tanto di sguardo pietrificatore. Sarà che mica ero uscita per fare le foto, stamattina. E poi ieri sera c’è stato il diluvio, umidità e acqua ovunque, e stamattina solo la piastra avrebbe potuto evitare l’effetto Giamaica. Per cui, il risultato è più o meno “è intelligente ma non si applica”. Insomma… Devo convenire. Per il glamour dell’anagrafe ci vuol ben altro.
Sorrido di nuovo. Almeno quello lo posso fare.
«Bene, così è ok».
Sospiro.
«Eh no, però mi ora deve guardare dritto, signora mia…»
Ma porco cazzissimo. Cosa ho fatto di male?
«…»
Dopo altri interminabili minuti di aggiustamento verso la perfezione, sono tutti soddisfatti: la macchina, la fotografa, Oliver. Io, per maggioranza relativa.
«Aspetti ancora tre minuti, però, prima di andare via».
Cosa vuoi che siano, per una istantanea decennale.
Mi accascio sulla sedia di legno che trovo vicino al bancone. Ma mi dimentico di avere un cane entusiasta e dopo pochi secondi siamo entrambi legati con il guinzaglio alla sedia. Mi chino, per liberare i sei arti complessivi dalla pena di questo giorno che si prospetta infinito. Mentre sono a testa in giù, vedo entrare un altro cliente. Zainetto sulle spalle, jeans, aria spiccia.
«Foto passaporto» dice.
Poi si toglie lo zainetto, lo ripone in un angolo e si sfila la maglietta.
È straniero. Bada all’essenziale. Ma così forse è un po’ troppo.
Mi raddrizzo sulla sedia. La stazione eretta conferma il sospetto della retina capovolta: dove prima mi guardava Bob Marley, in mezzo alla schiena del ragazzo, ora guizzano muscoli spuntati senza nemmeno il tempo di abituarsi alla possibilità.
Ma che posto è, questo?
La signora, in ogni caso, non mi aiuta nemmeno un po’:
«Qui ogni tanto capita. È per via del colore della maglietta».
Non mi interessa. Non lo voglio sapere. Ma sono gentile, faccio un sorriso. Voglio andare via. Voglio le mie foto. Metti che poi si offende e non me le dà?
Così mi giro dall’altra parte, ignorando la signora e la schiena nuda che scompaiono dietro la tenda scura, e fingo un rinnovato interesse per il morto numero 123, pagando il mio dazio per l’estetica di mezza estate senza battere ciglio.
Al teatro dell’assurdo dello sportello 12, intanto, mi aspetta sorridente l’impiegata ruminatrice.
Quando arriva il mio turno (ha mentito, la coda ora c’è, eccome), mi avvicino con fare assertivo.
Afferro il modulo, sporgo le foto, sibilo un saluto stentato e accompagno il tutto con un sorriso a mezza bocca, che promette tempesta. Spero si capisca, quanto sono cattiva e vendicativa, ma le prove di sguardo non le ho fatte, stamattina, per cui mi esce solo una faccia un po’ storta.
L’impiegata, però, non ci bada, persa a sfogliare il nuovo trittico mignon.
«Oh» si illumina «Adesso sì che vanno bene. Vede? Qui il collo, poi le guance, poi la fronte…» Dice, scuotendo il volto mentre lancia un ultimo sguardo severo alla vecchia me.
Minchia, Shrek. O Fiona, forse. Ma allontano subito il pensiero, dimentica del mio discutibile passato estetico e smetto di opporre resistenza. Firmo, compilo, ri-firmo, ri-compilo. Per ogni errore devi ri-compilare e ri-firmare. Non è che si cambia modulo. Cavolo, c’è la crisi, siam responsabili in Sabaudia, babe.
Alla fine riesco a sganciare la mia domanda, con la stessa lentezza di un modulo lunare in orbita.
Non oso pensare se fossi stata thailandese, o russa, allo scoglio linguistico, agli scogli tout court. Ma non mi importa, ormai sono regredita al soddisfacimento dei bisogni primari: io volere carta, tu dare me. Come Oliver con i biscotti.
Sorrisi. Consegna. Transazione. Resto.
È l’ora del commiato.
«Mi raccomando, la tenga con cura».
Ci puoi contare, carina.
«Se vuole, le altre le può usare per qualche tessera».
Sì, del Mossad. Sorrido in modo perfido.
«Ora mi sento molto più tranquilla…»
Non rispondo. Come potrei? Lei si sente tranquilla, e chi sono io per farla soffrire? In fondo è a suo modo stata gentile. Chissà quale ordine cosmico avrebbero compromesso, le vecchie istantanee, nel mondo parallelo delle certificazioni.
Me ne vado. È stato un attimo: in fondo sono solo trascorse tre ore. Tra due giorni è ferragosto. E la vita, a ben guardare, mi sorride.
Dall’interno della carta d’identità, ma non si può avere tutto.


Ndr

Sportello 12 è il primo dei quindici racconti che fanno parte del libro di Manuela Iannetti intitolato: “Boris e lo strano caso del maiale giallo” pubblicato per la collana Officina Marziani da Antonio Tombolini editore. Chi volesse comprare il libro nella versione cartacea o ebook, può chiedere direttamente presso Edicola 518 oppure ordinarlo su Amazon. La nostra amica e sostenitrice ha talento davvero.

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