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di Antonio Cipriani

C’è sempre qualcosa di sotterraneo che scava la parola. Immerso in un silenzio di valli e colline pettinate dal vento e dall’incertezza poetica dell’uomo, mi sono infilato in un’attesa misteriosa fatta di memoria e scintillanti presenze: Todi. Un luogo di confine, non ci sono dubbi. Un varco, una porta, un volo d’aquila sovrano: quando ero un bambino un cugino di mia madre, Adalberto, era di Todi e scendeva lungo la Valle del Tevere per trovare suo padre, Gustavo Coccanari, che era il fratello di mia nonna. Erano gli anni in cui un pacchetto di figurine Panini costava 10 lire. Lui ogni volta mi dava cento lire e io compravo dieci pacchetti. Questo è il legame di sangue. Attraverso la Coccoina da spennellare con perizia.

Infilandomi nel piccolo ascensore panoramico inclinato pensavo a quel parente e me lo vedevo con la faccia dello zio Gustavo di allora. Ma nel viaggio ascensionale quel volto seppiato prendeva le sembianze di un’altra persona, un guerriero, un filosofo, un artista. Ed era Steve Gobesso in bianco e nero. Neanche un passo sulle pietre di Todi e già ero perso nelle fantasticherie che spaccano il tempo, in un corto circuito tra realtà e visione che solleva lo spirito di mezzo metro almeno.

Per fortuna il termometro segnava 39° e l’aria della domenica sembrava vagare nella sua assenza. Un giorno perfetto per far sentire il suono dei passi sulle pietre. E per appropriarsi di questa bellissima parola: tuderte. Di Todi, ma non solo. Tuderte perché ha una grazia incredibile, che aiuta a essere cittadini con più fierezza di quanto potrebbe essere “uno de Todi”. Tuderte Adalberto e tiburtino lo zio Gustavo, mica “de Tivoli”.

Insomma, per citare i saggi, com’è e come non è, ci siamo trovati sotto le scale di San Fortunato. Il colpo d’occhio sublime, mezza chiesa è romanica e mezza è gotica, così mi sembra: nella parte alta laddove ti aspetteresti un rosone c’è una finestra che butta l’occhio, languida, dall’alto dell’acropoli. Per molto meno ci si innamora. Poi, più da vicino, è esplosione dei sensi. Gli scalpellini di questo prodigio, nella parte gotica, si sono dati da fare sul portale d’ingresso. Una narrazione di simboli e immaginette che chiedono attenzione all’autore e al pellegrino, e proteggono il luogo sacro, e per estensione la cittadina, da un’esistenza sconnessa dal sacro e dall’energia vitale. A colpo sicuro la mia guida spirituale mi indica il frate ignudo che con la sua verga infinita cavalca i motivi floreali e religiosi. Troppo in vista, qualche incivile nel corso dei secoli invece di dotarlo di mutanda di bronzo come altrove è successo, ha spezzato il fallo, recando offesa all’arte, allo spirito della fecondità che esprime e che trasmette vigore dalla sacra terra al futuro. Bacchettoni che nella storia hanno deciso di privarci della gioia espressa da un simbolo di maestria che religiosamente il frate usava per fecondare fantasie e tenere lontana la sventura. Per fortuna l’oggetto del fraticello non può essere interrotto; dopo un lungo e duro peregrinare attraverso santi, fiori e mandorle mistiche, alla fine giunge dall’altra parte del portale tra le gambe della monachella, posta in posizione di preghiera. Il sacro è anche questo congiungersi di elementi. Di simboli che si rincorrono nelle cattedrali gotiche, di donne con le gambe spalancate e la vagina in mostra a rappresentare il legame con l’inizio di tutto, con le divinità arcaiche che prima ancora che ci fosse una chiesa avevano in quel luogo il nucleo della santità.

Della macchina parcheggiata in cima alle scale davanti all’ingresso della chiesa, del venditore di cianfrusaglie e della oscura custode del campanile non dico niente. Mi limito a pensare ai santi Cassiano e Fortunato e al beato Iacopone che santo non lo è diventato per la Chiesa, perché un po’ eretico. Grandioso, spettacolare nelle laudi e nel suo incedere: Stabat Mater dolorósa iuxta crucem lacrimósa, dum pendébat Fílius. Mentre vergo con la penna d’oca sento le stanze di Pergolesi risuonare nella testa. E se anche questa meraviglia tra le laudi non è che sia certa, penso che non fa niente. Mi lascio alle spalle Madonne e diavoli tentatori, frati e donzelle inginocchiate a ricever l’assoluzione. E conquisto l’ardire del presente.

A un certo punto del pomeriggio tra affanno e ardore, quando il sole non perdona, è apparso un gruppo di suore. In bianco, belline e piccoline. Vagavano alla ricerca di ombra, acqua, frescura. Devono aver pensato che Nostro Signore se voleva che visitassero San Fortunato doveva loro accorciare le scale. Hanno guardato dal basso e sono andate avanti. In quel momento è scattato il desiderio di sentire le loro storie mistiche. Così, dopo aver abbandonato in un luogo riparato dell’immaginario Adalberto, Gustavo e Gobesso, mi sono candidato per una foto di gruppo. Non c’è stato bisogno di pregarle, perché le sorelle si sono messe in posa ed è partito il giro religioso delle foto insieme. Con le nostre macchinette e con le loro. Qualche bel selfie e la richiesta da parte di suor Anna di sapere che cosa esprimesse il tatuaggio di Valentina. Il Calvario di nostro Signore, le ho risposto piano all’orecchio e lei è andato a visionarlo con cura. Apprezzandone l’onestà e nello stesso tempo la sagacia.

Con le suore ci siamo poi ritrovati nel Duomo, dove si stava da Dio, freschi e silenziosi. Mentre fuori, diceva un pellegrino piovuto a Todi dalla Val Brembana, fa un caldo della Madonna. Paccate di metafore che fanno bene al cuore di noi povericristi vagabondi come vascelli arrivati da ogni confine, approdati pigramente nella città di Iacopone il beatissimo poeta maledetto. Il mondo trova pace in una calda luce. E noi col sole a picco, con le sorelle in viaggio, la troviamo provvisoria sotto la pergola di una piccola gelateria.

Si accende l’ora del ritorno, attraverso piazza del Popolo. Sotto Palazzo dei Priori una targa racconta di chi ha dato la vita per gli ideali risorgimentali. Chi in battaglia, chi nelle prigioni politiche. Come Domenico Mezzoprete, morto di carcere duro, per non aver voluto rinnegare i propri ideali. Condannato a 18 anni di galera quando ne aveva 26, non è mai più tornato a Todi. Erano i tempi in cui la libertà, le passioni, le scelte viaggiavano sul bilico della vita e della morte, senza seconde possibilità. Messi con le spalle al muro dalla storia hanno scelto la strada impervia. Sono nomi scritti su una lapide, ma sono stati giovani, hanno amato, vissuto, camminato su queste pietre assolate, guardato l’orizzonte, immaginato attraverso la grandezza dell’arte, città dove non c’è nulla che non sia beltà, ordine e lusso, calma e voluttà.

Da questi sognatori sono arrivati ai giorni nostri saperi e sapienza, forme da narrare e utopie capaci di spiazzare la realtà. Semi sotto la neve. Fino a scoprire com’è lunga la strada che costeggia le mura antiche di Todi, lentamente, in compagnia dei nostri amici di viaggio nella calura, Steve, Adalberto, Domenico e Mazzini Mezzoprete, Gustavo. Sindaci tuderti e tiburtini, disegnatori e indefesse madonnine del silenzio tra rovi e attese. Varchi, porte etrusche e pensieri bagnati dal sudore. Fino alla Consolazione quando la visione bramantesca, di luce soffusa tra cerchi e quadrati essenziali, ha acceso l’ultima scintilla di visione che si è andata a poggiare su una giovane turista venuta da molto lontano che col gonnellino svolazzante tagliava la magia architettonica inconsapevole e saggia, come se i suoi passi fossero guidati dall’alto. E così era, con ogni probabilità. Tanto che ho deposto il cuore su un inginocchiatoio e come preso da un violento moto poetico ho chiuso gli occhi per un tempo infinito, scandito da tacchi sconosciuti e brusii soavi, fino al suono baritonale del custode: sor maestro s’è fatta una certa, qua se chiude.

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