CONDIVIDI

di Matteo Minelli

Quando approdiamo nel reparto “carni” di un supermercato e guardiamo le targhette gialle con le cifre in nero pensiamo che quello sia il prezzo autentico del cibo che stiamo per acquistare. Ebbene ci sbagliamo di grosso. I prodotti di derivazione animale hanno almeno quattro prezzi.

Il più basso è quello esposto in bella mostra sui banchi frigo. È l’unico che ci viene mostrato apertamente perché probabilmente è l’unico che siamo in grado di digerire. Il più alto, quello che sembriamo aver dimenticato, invece, è il prezzo della vita. La vita, intesa nel suo significato più ampio e totalizzante, che sottraiamo a quei centocinquanta miliardi di animali che diventano merce nelle industria dell’alimentazione. Questo ovviamente è un prezzo non quantificabile, nonostante la nostra società sia abituata misurare col denaro ogni aspetto dell’esistenza. E non starò a girarci troppo intorno, per me,  nessuno di noi dovrebbe chiedere a qualcun altro di pagare questo prezzo, potendone fare a meno.

Tra questi due estremi, ci sono due prezzi intermedi che non vediamo appiccicati alle confezioni del cibo, e che sembrerebbero non essere calcolati nello scontrino della nostra spesa. Eppure sono prezzi salatissimi che paghiamo tutti i giorni, collettivamente e individualmente, nel portafoglio e nella salute, nei mari e nelle foreste. Prezzi che, quantificati in termini squisitamente monetari, triplicherebbero il costo dei derivati animali che andiamo ad acquistare. Sempre che sia possibile ricomprare col denaro ciò che scontiamo in peggioramento della nostra condizione fisica e soprattutto in termini di devastazione ambientale.

Comunque per fare un piccolo esempio di quanto lieviterebbero i prezzi della carne se venissero applicati tutti i costi che le industrie di allevamento, lavorazione e distribuzione esternalizzano, possiamo sbarcare negli Stati Uniti dove questa distopia dei prezzi assume proporzioni agghiaccianti. Un hamburger che a New York viene venduto a 4 dollari e mezzo, infatti, dovrebbe costare più di dodici dollari. I quasi otto dollari di differenza provengono dal pagamento di tributi sociali, fiscali e ambientali che le lobby del settore non hanno mai assolto. Andando nel dettaglio ai 4,5 $ di etichetta andrebbero aggiunti 0,67 $ di costi ambientali, 0,70 $ di sussidi governativi, 5,70 $ in spese sanitarie e 0,38 $ per la riduzione delle pratiche crudeli nel settore. Negli Stati Uniti, nel complesso, ogni anno la filiera dei derivati animali scarica sulle spalle dei contribuenti 414 miliardi di dollari.

Ma come è possibile che negli Stati Uniti ci sia un così vasto consumo di derivati animali se il prezzo da pagare è in realtà così alto? Com’è possibile che il consumo di pollo, ad esempio, sia quintuplicato in mezzo secolo mentre il suo prezzo crollava vertiginosamente passando da 5 $ a 1,34 $ al chilo? Com’è possibile che il prezzo medio di mercato una mucca allevata nel nei North Central States sia di 245 dollari mentre per crescerla se ne spendono il doppio?

La risposta è semplice e c’entra con i commodity checkoff program. Si tratta di un fenomeno nato e sviluppatosi negli Stati Uniti, divenuto ormai una vera e propria istituzione. Sostanzialmente le organizzazioni dei produttori alimentari promuovono una raccolta fondi interna al loro mondo per supportare campagne di pubblicità, vendita e ricerca che servono ad ampliare le quote di mercato di un determinato alimento, conquistare le piazze estere, sviluppare nuovi modelli di consumo, ridurre i costi di produzione. Si finanziano attraverso una sorta di tassazione sulle vendite, che inizialmente era volontaria e con il tempo è praticamente diventata obbligatoria, scatenando una serie di dispute legislative, ancora in corso.

Esempi famosi di campagne legate a doppio filo a tale meccanismo sono “Milk Does a Body Good, “Pork. The Other White Meat”, “The Incredible, Edible Egg”, e “Beef: It’s What’s for Dinner”. Slogan, partoriti da giganti della pubblicità, che a noi dicono poco, ma che negli States sono diventati familiari ad intere generazioni. I checkoff program sono sostenuti e supervisionati direttamente dal Dipartimento dell’Agricoltura americano, e hanno un’importanza fondamentale nella diffusione di alcuni alimenti piuttosto che di altri. Come avrete dedotto dai motti delle varie campagne promozionali se ne servono prevalentemente i produttori di cibi di origine animale. Cibi i cui consumi sono saliti alle stelle a seguito delle massicce operazioni di marketing lanciate grazie ai cinquecento milioni di dollari raccolti e reinvestiti nell’ambito dei commodity checkoff program. Un enorme massa di denaro che le aziende del settore possono spendere per ingaggiare una vera e propria guerra di propaganda. E si tratta di soldi  spesi parecchio bene visto che per ogni dollaro investito alle industrie del settore ne sono tornati addirittura 18.

È ovvio che questo massiccio incentivo al consumo di derivati animali non sarebbe possibile senza l’appoggio dell’autorità governative che adottano nei confronti del mondo degli allevatori delle politiche straordinariamente favorevoli. Non soltanto infatti, come detto, il dipartimento dell’Agricoltura sostiene i checkoff program, ma versa più o meno direttamente nelle tasche degli addetti al settore incentivi pubblici stimabili in 38 miliardi di dollari. Questa pioggia di soldi da un lato contribuisce a mantenere straordinariamente basso il prezzo di derivati animali, dall’altro ne stimola continuamente la domanda.

Ovviamente il cittadino americano, bombardato dalla martellante propaganda delle industrie del settore, risulta totalmente disinformato sulle conseguenze delle sue scelte alimentari. In primo luogo non sa che la filiera della produzione di derivati animali è la prima causa mondiale dei cambiamenti climatici, della deforestazione, della comparsa di zone morte negli oceani, di utilizzo di risorse idriche, di produzione di gas metano, di estinzione delle specie viventi. In seconda battuta non si rende conto che quasi 40 miliardi delle sue tasse vengono immesse nella “filiera animale” mentre solo 17 milioni di dollari supportano l’aumento dei consumi di frutta e verdura. In terza istanza non comprende che tre quinti dei soldi immensi nel programma sanitario medicare ,gestito dal governo,  serve a curare patologie che centinaia di studi clinici negli ultimi decenni dimostrano essere strettamente collegati al consumo elevato di alimenti di origine animale.

È evidente che i cittadini americani non sembrano aver compreso minimamente quale sia il prezzo della carne, e anzi, come gli uomini del Mondo Nuovo di Aldous Huxley, sono più o meno consapevolmente figli del proselitismo carnista che impera nel proprio paese.

Giunti a questo punto mi piacerebbe veramente poter dire che nella Vecchia Europa c’è tutta un’altra storia, e che l’Italia è agli antipodi del sistema statunitense. Ma onestamente mi sentirei soltanto un bugiardo. Quel prezzo non lo conosciamo, o fingiamo di non conoscerlo, nemmeno noi. Eppure quel prezzo esiste. È un prezzo etico, ambientale, salutare e noi lo stiamo già pagando.

 

Per raccontare come stiamo drammaticamente pagando una parte di questo prezzo, quello ambientale, come collettivo Emergenze, abbiamo organizzato una serata dedicata ad approfondire l’impatto dell’industria alimentare sull’ecosistema Terra. 

Qui chi fosse interessato può trovare tutte le informazioni della serata dedicata a questo tema che abbiamo organizzato a Perugia.

Lascia un commento

La tua mail non verrà pubblicata, * campi obbligatori