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di Matteo Minelli

 

Sangue, fango e cadaveri ingombravano le strade del centro di Perugia all’alba del 21 giugno. Il sorgere del Sole mostrava ai cittadini sopravvissuti i macabri strascichi degli assassini e dei saccheggi perpetrati dalle truppe svizzere e dai gendarmi pontifici al seguito del colonnello Antonio Schmidt d’Altorf. Morte e distruzione costituivano il prezzo che la città dovette pagare per essersi ribellata allo Stato della Chiesa.

Correva l’anno 1859. La guerra in corso tra il Regno di Sardegna e l’impero austro-ungarico riscaldava i cuori dei patrioti italiani. Convinti che l’unità nazionale fosse vicina, in molte città del centro Italia, i rivoltosi insorgevano invocando il nome di Vittorio Emanuele II. Perugia non poteva mancare all’appello. Qui il 14 giugno una folla munita di tricolori scese per le strade e si presentò sotto il palazzo del comune chiedendo al legato pontificio di collaborare. Ottenuto un inamovibile diniego, i rivoltosi cacciarono le autorità papaline e organizzarono d’urgenza una Giunta Provvisoria. Vennero in breve tempo raccolte duemila firma per offrire la dittatura a Vittorio Emanuele II, mentre si chiedevano aiuti, in uomini e armi, alle altre città e alle province limitrofe già insorte. Purtroppo ben poche realtà risposero alla chiamata. Furono appena 400 i fucili arrivati da fuori che si andarono a sommare ai soli centoventi archibugi raccolti entro le mura. Pochi moschetti e ancor meno munizioni per difendere la città dall’assalto di 2300 soldati svizzeri partiti da Roma con il solo scopo di ridurre all’obbedienza il capoluogo umbro. Le autorità pontificie, infatti, avevano deciso di rispondere duramente alla sollevazione e di rendere Perugia un esempio impossibile da dimenticare. I perugini, nonostante l’isolamento diplomatico e la carenza di vettovagliamenti e armi, non presero nemmeno in considerazione la capitolazione volontaria. Anzi, venuti a conoscenza del rapido avvicinamento degli svizzeri, cercarono di organizzare la difesa nel modo migliore possibile; le piazzeforti furono rinforzate, i moschetti divisi tra i militi, gli spalti delle mura presidiati, le barricate erette.

Quando alle tre del venti giugno l’esercito mercenario pontificio forte di cavalleria, artiglieria e abbondanti munizioni si presentò davanti alle mura meridionali della città, fu accolto da una selva di fucilate. Dalle mura del Frontone prima e da porta San Pietro poi gli assediati cercarono di respingere, senza successo, l’orda degli invasori che si faceva strada a colpi di cannone.Gli insorti, nonostante la palese inferiorità di mezzi e la poca organizzazione, si difesero per alcune ore combattendo casa per casa e rione per rione, contribuendo in questo modo a rallentare l’inesorabile avanzata della marea elvetica. Fiumana che alla fine invase corso Cavour iniziando entro le mura le uccisioni e i saccheggi che già aveva praticato lungo la sua macabra marcia di avvicinamento alla città.

Quello che accadde il XX giugno restò impresso nei cuori dei perugini che lo vissero, e fu tramandato di generazione in generazione affinché il ricordo della sollevazione e della strage non fosse mai dimenticato. Ma si sa che gli anni passano e non tutti hanno una memoria di ferro. Eppure, nonostante l’oblio che caratterizza questa nostra triste epoca, molti in città non hanno lasciato che il tempo prendesse il sopravvento e cancellasse nella mente e nel cuore un’esperienza che ha lasciato Perugia sconfitta sul piano della battaglia ma vittoriosa su quello della storia.

Questa esperienza e non il passato etrusco, romano e medievale della città, non le sedi istituzionali che ospita, non il numero dei suoi abitanti, non la sua collocazione geografica rappresenta l’autentica motivazione per cui Perugia merita di essere il capoluogo dell’Umbria.

Eppure in città molti vorrebbero che si dimenticasse il XX giugno; forse perché si tratta di una data scomoda da celebrare, essendo uno di quegli eventi che, al di la delle prese di posizione istituzionali, può dividere ancora. Oppure perché il XX giugno ha la forza di riaccendere il dibattito a Perugia, magari finendo per rievocare sentimenti mai sopiti e per incanalare forze che sembravano morte verso obiettivi mai tanto attuali come oggi. Si perché il XX giugno non è soltanto la commemorazione del passato. Non è semplicemente il ricordo della storica ribellione della città al potere pontificio e delle infami stragi che seguirono la sua riconquista. Non è solo il giorno in cui cade l’anniversario  dell’insurrezione e della liberazione di Perugia. Il XX giugno è molto, molto di più.

Il XX giugno è il simbolo della Perugia che non dorme, che non si culla nella continuità del potere che l’amministra, di ogni potere che l’amministra. È il simbolo del coraggio cittadino, del desiderio insurrezionale, della solidarietà degli uomini dei mestieri, del tradimento di chi sta sul piedistallo, dell’ingenuità di chi non conosce calcoli politici e ambigue strategie per cambiare il mondo.

Forse Perugia, prima di quest’anno, non ha mai avuto la sua rievocazione storica. Non aveva i Ceri e neppure la Quintana, nessun palio e nessuna sfilata. Perugia però aveva molto ma molto di più, aveva il XX giugno e ce l’ha ancora. Ce l’ha oggi e ce l’avrà domani, perché c’è sempre uno stato pontificio contro cui combattere e una libertà cittadina da riconquistare.

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