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K. Haring, Manhattan Penis Drawings For Ken Hicks, Nieves.

Come va? Tutto pene.

Sì, avete letto bene, pene, perché dopo la lettura – che può tradursi nell’atto di aprire, chiudere, aprire e chiudere, sfogliare, fissarsi compulsivamente su una pagina, eccitarsi, andare avanti, tornare indietro, vergognarsi, chiudere, riaprire, interrogarsi, ridacchiare, coinvolgere amici, amiche, conoscenti ed anche parenti, quindi riflettere, riguardare e chiudere per poi riaprire il volume all’occorrenza – del libro che raccoglie i disegni di peni di Keith Haring, non potrete rispondere diversamente alla domanda d’obbligo rivolta dal vostro interlocutore ignaro.

Sì, perché nel libro in questione non troverete testo, se non un sommario degli schizzi – illustrazioni, si intende –  dei settanta peni risalenti al 1978, grande annata, non c’è che dire: oltre a dei fedeli (chissà?) autoritratti, a riposo e sull’attenti, potrete trovare peni Gucciati – il monogram “gg” in effetti è superato, Alessandro Michele (attuale direttore creativo del brand, per i profani) potrebbe farci un pensierino su –, peni che campeggiano di fronte a Tiffany, di fronte a un museo di arte moderna, finestre falliche, porte falliche, chiese falliche, edifici fallici, idranti fallici… in una sorta di deriva monoerotica del quartiere di Manhattan, in una sorta di allucinazione metropolitana un po’ porno.

A chiudere l’antologia, un alfabeto nella lingua dei peni (perché i peni parlano, sappiatelo), un nudo (onesto), peni che attendono una succulenta compagnia (la traduzione dall’inglese e la censura necessaria mi portano a gioiosi eufemismi), un sessantanove (beh un classico dei classici, assolutamente immancabile) e peni con triangoli (delle Bermuda??).

Ossessione, smania, provocazione, divertissement, allusione, monito, non sense? Da cosa nasce questo cursus penorum? Da nessuna di queste spinte in particolare, piuttosto da tutte quante insieme, crogiolandosi ambiguamente nella dicotomia eros e thanatos, euforia e angoscia, per cui la vita nasconde con le sue parvenze ammiccanti l’ombra della morte.

Come gli omini che danzano, che amano e si fanno amare, i cani che abbaiano e si fanno notare, su muri di mezzo mondo e su magliette di mezza umanità, e con quelle danze fameliche cercano di sfuggire all’abisso, così, già in questi peni c’è la forza pulsante, il desiderio, il godimento, ma c’è anche l’angoscia, l’annientamento, la malattia. Lo spettro dell’aids stava calando un velo tetro sulle gioie dell’amore e stava avvolgendo anche Keith, che però non smise di celebrare la Bellezza fino alla sua precoce condanna, paladino instancabile del colore, del movimento e del pop, che ha lasciato un testamento vivido e accessibile, come dovrebbe essere per lui l’Arte.

Il nostro libro di peni è un piccolo e lussurioso nonché precoce esempio della poetica di Haring, da aprire all’occorrenza, ma anche solo da tenere in bella mostra, così da potervi vantare di aver comprato “un libro del cazzo”, almeno per una volta in senso letterale.

Completamente black & white, le pagine scorrono con piacere, avvalendosi di una carta liscia liscia che chiede di farsi accarezzare. Unica pecca, la copertina (color carta da pacchi, molto chic) non è rigida.

Per prenderlo e farci quello che vi pare:

Un commento su “1978: quando Keith Haring si mise a disegnare cazzi in giro per Manhattan

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