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Non c’è guadagno senza perdita.

Paul Virilio

Mi piacciono molto i cassetti.

Specialmente i cassetti che rimangono chiusi per un sacco di tempo.

Così come mi piacciono i progetti accantonati, le soffitte impolverate, i videoclip mezzi montati in una cartella a caso del pc, i provini musicali abortiti, i mercatini dell’usato, i depositi, le agende degli anni passati, i diari delle medie con scritto “ELSA” su un lato, i libri con le annotazioni, la cantinetta dei vini di casa, quelli importanti che tuo padre non ha mai avuto l’occasione di aprire, le camere dei figli quando i figli se ne sono andati ormai da anni e hanno a loro volta figli grandi, insomma, mi piacciono, se così posso semplificare, le cose non risolte, messe da parte, che esistono di per sé e che potrebbero esistere per anni, per decenni, senza che nessuno se ne accorga, ma che poi, in maniera del tutto casuale, spuntano fuori: il minuto prima non c’era bisogno di loro, e adesso diventano un’urgenza di cui non potremmo fare a meno.

Questa è stata la sorte toccata all’intervista a James Ballard che Sandro Moiso, studioso e autore di testi sulla musica, la cultura e la storia americana, ma anche polemologo e docente di Storia, ha raccolto nel giugno del 1992, fino a quando gli editori di Krisis non hanno deciso di pubblicarla nel novembre scorso con il titolo All That Mattered Was Sensation (Krisis, 2019).

E devo dire che la pubblicazione mi sembra proprio riuscita.

Il libro è diviso in due parti speculari, una metà inglese e l’altra in italiano.

In entrambe le copertine svetta la mastodontica figura di Arnold Schwarzenegger, negli anni del suo massimo splendore: nella facciata in lingua inglese, ritratto nella celebre posa del Doppio Bicipite Frontale e nella parte in Italiano con il corpo in torsione come la statua greca del lanciatore del disco.

La struttura è molto semplice. L’intervista, introdotta da una prefazione dello stesso Sandro Moiso, è il centro del libro, ed è conclusa da un testo di Simon Reynolds, che riprende ed amplia alcuni dei temi trattati.

Come in uno zoom continuo e inesorabile, il libro cerca di avvicinarsi a quell’inglese gentile vestito di bianco, incontrato nella hall del Gran Hotel Royal al Noir Festival di Viareggio. Pagina dopo pagina viene messo a fuoco e si ha proprio l’impressione di raggiungere il cuore pulsante del suo pensiero che posso semplificare al massimo in questo modo:

La comunicazione contemporanea con tutti i suoi infiniti mezzi, la rete dei trasporti, la tecnologia intesa nel senso più ampio del termine, non hanno modificato il mondo. O meglio, lo hanno fatto questo è certo, ma la sua fantascienza non si occupa di questo. Quello che conta per lui è indagare piuttosto gli sconvolgimenti, le psicosi vere e proprie che questi cambiamenti hanno portato nell’interiorità di ognuno di noi.

Nella sua narrativa, Ballard si rivolge così allo spazio psicologico, a quell’ «Inner Space», lo spazio interno, il modo in cui la tecnologia sta(va) cambiando e influenzando la nostra immaginazione.

Il nostro rapporto con la realtà.

L’ombra che il progresso disegna inevitabilmente dentro di noi.

A questo punto abbiamo due strade:

1) “Ok ho capito, il libro potrebbe essere figo, capiterò in Edicola 518 per comprarlo se ho soldi e voglia, ma adesso, grazie, torno a scrollare la mia bacheca di facebook, che tra l’altro ha tra le sue grandi colpe aver generato l’incontro con questo articolo”. 1a) “Del libro e dell’articolo con tutto il bene per gli psicodrammi della modernità, non me ne frega un cazzo”. Poi come sopra.

Oppure: 2) Proseguire con me in un groviglio filosofico complicatissimo, in cui cercherò di spiegare balbettando in poco più di un’altra cartella, quello che penso di aver capito del libro, di Ballard, e del perché secondo me forse abbiamo ancora bisogno di lui e di riflettere sul suo pensiero.

Ok, sei davvero un grande. Affonderemo insieme.

Colonna sonora: Idles. Brano: . Il Punk.

Dunque, dicevamo del fatto che il bombardamento di immagini, la sovraesposizione, i nuovi mezzi di comunicazione, hanno modificato non tanto la realtà, quanto noi stessi e il nostro rapporto con la realtà.

Per fare un esempio concreto, tra la sedia su cui sono seduto e da cui sto scrivendo questo articolo e Shanghai, luogo in cui James Ballard è nato nel 1930, ci sono sempre 9.041 Km, ma è come se quella distanza fosse in qualche modo cambiata, grazie alle tecnologie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto.

In questo sconvolgimento del reale, io posso vedere in diretta quello che succede dall’altra parte del mondo e in massimo 12-20 ore posso esserci fisicamente. Questo ha in qualche modo sconvolto la nostra idea di realtà: il reale per Ballard è qualcosa che possiamo conoscere benissimo e immediatamente, ma su cui sempre di meno possiamo agire.

Fino ad arrivare all’assurdo in cui «la pubblicità del nuovo film di Schwarzenegger (ricordo che l’intervista è stata fatta nel 1992) diventa più reale di un campo di erba che cresce».

Provo a spiegarmi meglio. Il rituale mediatico, che deve attirare costi quel che costi la nostra attenzione in un tempo reale unificato, servendosi sempre di più di una narrazione violenta, fatta di immagini sempre più crude, meglio ancora se connotate da caratteri sessuali per far presa sulle nostre tenere coscienze, ci chiede di essere partecipi della sofferenza del mondo, quando poi quello che potremmo fare al massimo per quella determinata sofferenza, dilaniante in termini assoluti, è indignarci un po’, commentarla, condividerla, per poi tornare sdraiarti a fare quello che facevamo prima che questa informazione ci fosse arrivata.

Come scrivevo due anni fa nella mia tesi di laurea magistrale, citando il Filosofo francese Paul Virilio, «Si genera così uno scollegamento percettivo, tra quella che è l’interazione del mondo con me, e la mia possibilità di risposta reale sull’informazione che ricevo, sempre e comunque filtrata dai canali attraverso cui questa informazione passa».

Così che la più naturale delle risposte è il nostro ritirarci in uno stato di inezia.

Secondo Ballard non è quindi affatto strano che «l’età dell’assoluta libertà coincida con l’età dell’assoluto nichilismo».

Mi viene un mente un racconto lungo scritto da Nora Fernandez Space Invaders (Edicola Ediciones, 2015), in cui in pratica si racconta della violenza che ha invaso il Cile degli anni ottanta, vista dagli occhi di un gruppo di bambini in età scolare che, troppo piccoli per capire i meccanismi della realtà che li circonda, si trovano immersi in un sistema che vuole inculcare nelle loro teste un’ideale di purezza e coraggio che è simile e fa da seme a tutte le estremizzazioni del nazionalismo la cui violenza appunto fa da sfondo alla vicenda. La cosa secondo me più potente è appunto il richiamo al popolare videogame che consiste in continua invasione aliena alla quale il giocatore non può che opporre una strenua resistenza senza alcuna speranza di vittoria ultima.

Il giocatore è condannato ancora prima di iniziare a sparare.

Così, mentre continuiamo a raccontarci che va tutto alla grande è evidente che qualcosa ci sta sfuggendo di mano e Ballard, così come Paul Virilio, vedono negli incidenti del quotidiano, nelle catastrofi che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, nelle nostre depressioni e perversioni, dei monumenti a questo disastro, dei campanelli di allarme, che dovrebbero segnalarci il muro di nonsenso su cui ci stiamo inesorabilmente infrangendo.

Allora ecco La mostra delle atrocità, di Ballard (1973) e Crash (1990), le sue due opere più importanti. Ecco l’esposizione del 2002 dal titolo Ce qui arrive (Ciò che succede), promossa da Virilio alla Fondazione Cartier di Parigi in cui incidenti di ogni tipo venivano messi in relazione con le meraviglie del progresso tecnologico che li avevano provocati.

Mi chiedo anche se forse il nostro assoluto cinismo ed eccessivo sarcasmo, anche difronte a catastrofi terribili, altro non sia che parte di una tuta che indossiamo in quello spazio siderale e sconfinato che è il nostro psicologico, quando non ci sono altre possibilità.

Quando gli invasori, sono troppi e troppo potenti.

Vogliamo parlare di come questo paesaggio della comunicazione abbia contaminato la politica con l’attualità delle sue immagini e dei suoi slogan e nel corso di questo processo ha dissolto definitivamente la divisione tra industria dello spettacolo e arte di governare?

No. Per adesso credo possa bastare.

Penso che comunque ritrovare uno stralcio così autentico del pensiero di Ballard come in All That Mattered Was Sensation, sia davvero una grande fortuna. Ringrazio Francesco d’Abbracci e Andrea Facchetti che hanno curato la pubblicazione a nome dell’umanità. Quando mi trovo davanti a libri di questo genere penso che ogni cosa ha il suo tempo e che nemmeno una goccia di tutte le cose che facciamo scompare, può essere dimenticata al più, anche per molti anni, ma poi avrà tutto quello che meritava, almeno così spero.

Forse il momento migliore per scoprire o riscoprire Uomini e pensatori come Ballard e Paul Virilio era proprio questo, non un mese, non dieci anni fa. Proprio questo.

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