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di Manuela Iannetti

 

Ieri Antonio Cipriani e Valentina Montisci si sono sposati. È stata una cerimonia bella, semplice, sincera. Valentina era bellissima, Antonio era fantastico, dentro la sua camicia a fiori (alla fine ce l’ha fatta, a dimenticarsi quella bianca con i gemelli) e le adidas verdi sotto l’abito. Un tocco di sublime che dice l’unica cosa vera che si dovrebbe dire in queste occasioni: io son qui oggi, e son io, e voi siete qui per me e con me, con noi e per noi. Il resto, poco importa.

La sala degli specchi ti accoglie come un abbraccio che non ti aspetti, e ti intimorisce un po’. Un altro Antonio, amico celebrante, sacerdote follemente lucido di Emergenze, non si è per nulla intimorito della fascia di Pisapia che portava al collo, e ha raccontato con parole precise che cosa sia stato, sia e sarà l’amore tra due persone come Antonio e Valentina. Loro hanno tremato per un breve attimo sulle sedie, si sentiva il fiato trattenuto, ma non vi dirò perché, avreste dovuto esserci, e questo vi basti.

Al di là dei coriandoli rossi e degli abbracci sul selciato di Palazzo Reale, poi, Piazza Duomo era un tappeto puntellato di giapponesi, gitanti, turisti, cingalesi con l’asfissiante ansia di venderti l’asta per i selfie, perché loro lo sanno dai tuoi occhi bassi, che tu non ce l’hai ancora. Ci abbiamo camminato in mezzo, ed è stato strano essere turisti a Milano, di martedì mattina. Senza quel vago senso di colpa che colpisce chi di solito lavora, per poco o per il giusto, ma ha dentro una cosa che non sai spiegare, se non sei nato in Italia, negli ultimi 50 anni, dalla parte sbagliata del conto corrente in banca.

Poi siamo andati a recuperare l’auto, che per disperazione allegra avevamo parcheggiato all’ultima fermata di una delle linee della metropolitana, senza calcoli o premeditazioni, un errore felice a cui ti spinge la irrazionale fede in google maps. L’auto c’era ancora, per il vero, e dopo 10 fermate di metro era lì, sbilenca, sul prato davanti la porta di una bellissima e decadentissima villa di inizio secolo, oasi inopportuna in un groviglio di strade e parcheggi di svincoli extraurbani.

Allora mentre aspetti il semaforo sotto il cartello dell’autostrada ti guardi i piedi, e il tuo vestito bello ti sembra l’unica macchia di colore nel grigiomilano, una particolare tonalità del nord italico che dovrebbe diventare un pantone vero, anche se il verde tutt’intorno ti fa dire cose come menomale che almeno ci sono gli alberi, menomale che ci sono tanti giardini, come se fosse una specie di compensazione alla vita di merda delle periferie urbane, avere gli alberi, anzi no quasi una fortuna insperata, come se di solito no, le periferie urbane non lo meritassero, il verde.

Un’altra cosa che non si meritava, la periferia urbana, era vedere chiudere le sue fabbriche. Anche Trezzano sul Naviglio non se lo meritava, per dire. Sì, perché Antonio e Valentina hanno deciso di festeggiare il loro giorno di tanti giorni insieme in un posto speciale, che li accomuna e accomuna forse tutti noi. Alla Ri-MAFLOW, una bellissima ex fabbrica dell’indotto automobilistico chiusa nel 2012 e riaperta nel 2013 dai suoi operai, che l’hanno prima occupata, e poi recuperata.

Io non ero mai stata a un pranzo di nozze dentro un open space, conficcato di fianco alle presse. Ho trascorso tante feste del primo maggio in mezzo ai lavoratori, nei frantoi del salento o nelle ex miniere dell’Inglesiente, ma un pranzo di nozze in fabbrica, no, mai. Ed è stato bello, semplice, forte.
Perché le parole reddito, lavoro, dignità, autogestione ridanno speranza a tutti. Perché rispondere a una crisi economica con una conversione ideologica, ecologica e funzionale è una rivoluzione del pensiero asfittico in cui ci hanno cacciato a suon di facebook e grandi fratelli.

Gli ex operai della Ri-maflow vogliono realizzare una Cittadella dell’altra Economia, riportando il lavoro dentro gli spazi della fabbrica, instaurando un nuovo modo di intendere i profitti, i consumi, le scelte.
Ripartendo dal basso, dal recupero e da una mutualità vera di potenza e atto. Ieri Valentina e Antonio hanno regalato a noi tutti un esempio di rinascita, tanto importante e tanto forte se lo si rilegge alla luce dei destini incerti di ognuno, in primis quello di Antonio e la sua lotta in difesa dallo Stato per il diritto di pensiero e parola e di Valentina che gli sta a fianco con coraggio. Pochi simboli, molta forza. Dal buffet con le teglie di alluminio ai piatti di carta, dalle tavole rosse con le tovaglie di carta alle sedie da ufficio, tutto è stato bello e giusto.

E per sottolineare sottovoce questa lotta che inorgoglisce e che porta, da sempre e forse per sempre, l’operaio ad arrossire un po’ della sua semplicità bella, nascondendo i segni del lavoro duro (un tempo le mani sporche di grasso, oggi la semplicità dei mezzi) mentre ne parla, Antonio e Valentina hanno compiuto un piccolo gesto, restituendo loro un senso importante. Hanno scelto una cosa piccola, che forse per alcuni è passata inosservata, ma non per me. Al centro delle tavolate, sotto le candeline accese per la festa, c’erano dei mattoni. Mattoni veri, di muri veri, costruiti da altri operai, in un altrove che diventa familiare, perché qui si completa con una storia che non finisce, ma rinasce.

E io, oltre che per tutte le altre cose, di questo in particolare voglio ringraziare oggi Antonio e Valentina: per il favore che mi hanno fatto, ad invitarmi alla loro festa, perché ho imparato tante cose, perché mi sono ricordata di tante cose, che mi serviranno molto, per il mio percorso e per la mia vita. E in particolare per quei mattoni, che sono i mattoni di un muro che conosco ma che non dirò. Perché ci va comunque un po’ di follia per sposarsi, in fondo. Ed è giusto così.

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