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di Matteo Minelli

 

“Innu” significa semplicemente “essere umano”. E nessuno merita tale appellativo più dei membri di questo popolo, discendenti diretti di quei prodi che molte migliaia di anni or sono, sfidando i ghiacci e le tormente, armati di speranza e qualche utensile di pietra, attraversarono lo stretto di Bering e colonizzarono il continente americano. Se lo fecero per sopravvivere alla glaciazione oppure per inseguire le migrazioni di altri animali, per spirito d’avventura o per mantenere in vita la propria cultura, per paura di chi li braccava o per ardore di nuove scoperte, questo non lo sapremo mai. Come forse non sapremo mai se veramente attraversarono a piedi quel passaggio, se giunsero dal mare ghiacciato o dal Pacifico meridionale. Quello che però non si può dimenticare è l’assoluta grandezza di questo viaggio. Che sia stato affrontato in canoa o in slitta, per mezzo di racchette o remi, esso resta un’opera difficilmente eguagliabile nella storia della nostra specie.

Paesaggio tipico della Nitassinan, la terra ancestrale degli Innu (foto Survival International).

Gli Innu, in ogni caso figli di tale intrepida esperienza, si stanziarono nella terra che essi chiamano Nitassinan almeno duemila anni fa. E vi arrivarono quando solo foreste e laghi, abeti e pecci, orsi e caribù abitavano quelle regioni dell’odierno Canada che gli occidentali hanno poi denominato Labrador e Terranova, Quebec e Côte-Nord. Per moltissimi secoli vissero di caccia e raccolta, spostandosi a seconda delle stagioni, organizzando la propria società in piccoli gruppi profondamente egualitari anche nel rapporto adulti-bambini, uomini e donne.

Come per tutti i popoli tribali, anche per gli Innu l’incontro con gli europei segnò una triste svolta. Dapprima aumentarono i conflitti con le popolazioni indigene confinanti, in particolare i Mohawk e le altre tribù della lega Irochese, che finirono per introiettare le dinamiche delle guerre franco-britanniche in cui si ritrovarono coinvolte. Gli Innu divennero gioco forza alleati dei francesi che penetrarono nel loro territorio e ivi costruirono i primi insediamenti stabili. Con i colonizzatori giunsero anche i missionari, ciecamente convinti della necessità di convertire al cristianesimo le popolazioni indigene. Dopo un secolo e mezzo di dominio francese, a seguito della Guerra dei sette anni, le colonie canadesi passarono sotto controllo inglese. Anche se il Canada ottenne fin dal 1867 lo status di “dominion” e divenne completamente indipendente nel 1931, l’attuale provincia di Terranova e Labrador, in cui molte comunità Innu risiedono, fu annessa soltanto nel 1949.

Questo passaggio segnò l’inizio un drastico peggioramente delle condizioni di vita degli Innu. Il governo canadese adottò misure perentorie per obbligare gli indigeni ad integrarsi nella comunità nazionale. Fu proibito loro di cacciare e raccogliere liberamente, furono costretti alla sedentarizzazione, vennero rinchiusi in riserve dove insegnanti e preti si adoperano a cancellare la loro antichissima cultura (qui un’articolo dettagliato sul genocidio fisico e culturale di questo popolo). Tutto ciò mentre sulle loro terre ancestrali le autorità promuovevano la deforestazione, l’apertura di concessioni minerarie e la costruzione di immensi progetti idroelettrici, oltre a consentire esercitazioni militari della Nato con voli radenti al suolo.

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Giovanissimo Innu che sniffa benzina da una busta di plastica.

Straniati dal loro ambiente, alienati da uno stile di vita imposto, costretti a dimenticare le proprie origini, gli Innu sono precipitati nel giro mezzo secolo in un buco nero di suicidi, dipendenze e depressione da cui non sembravano potersi riprendere. L’intera società sta andando in frantumi: gli anziani, in passato oggetto di rispetto e cura, oggi sono scherniti e derisi, per questo vivono nella solitudine e nella paura. Molti neonati, viste le dipendenze dei genitori, sono colpiti dalla sindrome alcolica fetale, causa di gravi malformazioni fisiche e psicologiche, alterazioni mentali, disturbi dell’apprendimento e della crescita. Tra i giovanissimi, inoltre, si è diffusa la tremenda abitudine di sniffare carburanti, che ha come conseguenza lo sviluppo di gravissime patologie agli occhi, ai reni, al fegato e al cuore. Nel 2000 Charles Rich, un Innu di soli undici anni, morì arso vivo divorato dalle fiamme divampate dalla benzina che stava sniffando.

Alla fine degli anni novanta l’ONU, su pressione degli attivisti per i diritti degli Innu, ha affrontato il loro caso e dichiarato che il Canada ha di fatto “cancellato i diritti dei popoli autoctoni”, invitando le autorità a risolvere quella che veniva definita “la questione più urgente che i cittadini canadesi devono affrontare”. Da allora ben poco è stato fatto poiché le autorità canadesi pretendono che qualsiasi riconoscimento dei diritti territoriali degli Innu sia subordinato alla cessione formale delle loro terre ancestrali. Si perché gli Innu, a differenza di moltissimi altri popoli indigeni, non hanno mai ceduto ai ricatti del governo canadese e concesso formalmente ad esso il controllo sui propri territori d’origine. La pretesa del Canada di controllare gli Innu e l’ambiente in cui hanno storicamente vissuto è pertanto priva di qualsiasi appoggio legale e in violazione di ogni norma internazionalmente riconosciuta. Il governo, inoltre, sta di fatto violando la Convenzione ILO 169 con cui le Nazioni Unite hanno stabilito alcuni diritti fondamentali dei popoli indigeni.

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Michael Andrew, l’Innu che ha percorso 4000 km a piedi (foto Survival International).

Negli ultimi anni gli Innu sembrano aver rialzato la testa e hanno ribadito la propria contrarietà a qualsiasi resa nei confronti delle autorità statali. Simbolo di questa riscossa è stato il viaggio nelle terre selvagge che Michel Andrew, un Innu ex alcolizzato, ha compiuto nel 2012. Quattromila chilometri percorsi a piedi tra la neve, i ghiacci e le lande rocciose, dapprima in solitaria e poi con l’appoggio di altri membri del suo popolo, per attirare l’attenzione sulla terribile condizione in cui gli Innu versano da ormai troppo tempo. Erano almeno cinquant’anni che nessun Innu riusciva a compiere questa lunga marcia, che simbolicamente ha toccato i due estremi della Nitassinan, la loro terra ancestrale. La coraggiosa impresa, che per certi versi non può che ricordare la grande epopea dei primi uomini nel continente americano, ha ridato orgoglio ai membri di questo straordinario popolo, che non smetterà mai di camminare lungo la propria strada.

Leggi anche gli altri articoli delle rubriche #MorireDiCiviltà e #OltreLaCiviltà. 

3 commenti su “Innu: il popolo che continua a camminare, nel Canada delle privazioni

  1. Grazie per quest’altro bell’ articolo.
    Mi piange il cuore a vedere il sopruso che la “civiltà” fa ai danni dei popoli tribali.
    In questo caso, verso gli eschimesi.
    Segnalo due bei libri su questo popolo :
    “Confessioni di un abitatore di igloo” di James Houston.
    “Dove il vento grida più forte” di Robert Peroni.
    .—-
    Dovremmo imparare da loro, non brutalizzarli.

  2. Ho conosciuto, tramite amici canadesi, le opere di un cantante innu, FLORENT VOLLANT, il titolo del CD ” LE LOUP BLANC” ho letto anche il libro, autobiografico, di questo autore ( credo solo in francese) NINANIMISHKEN “JE MARCHE CONTRE LE VENT” che consiglio vivamente

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