I Paradisi Artificiali

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174 pp.

Libro affascinante e ambiguo, I paradisi artificiali enunciano una contraddizione di fondo: da una parte il giudizio – spesso convenzionale e moralistico – che Baudelaire da dell’esperienza della droga (l’hascisc e l’oppio), dall’altra le stupende descrizioni dei « viaggi » in cui l’autore dimentica le sue ammonizioni e assume anche nel linguaggio un’altra velocità di racconto, di nessi, di associazioni tra i diversi e infiniti tempi in cui si consuma ogni esperienza. La droga sembra così vanificarsi in quanto « sostanza» per assumere le dimensioni di uno spartiacque tra il Baudelaire moralista e gli «altri» Baudelaire, pronti a dimenticare ogni intenzione di «mettere in guardia» il lettore e a scoprire nelle registrazioni dei sogni di un drogato («così si esprime, per bocca dei suoi personaggi, il signore dell’orribile, il principe del mistero ») qualcosa che impedisce a loro stessi di «mettersi in guardia». Baudelaire descrive, con estrema nitidezza di particolari, i fiumi e gli spazi che si aprono in una stanza, i vecchi soffitti che diventano cieli, le screpolature che diventano uccelli misteriosi. Baudelaire «entra» così in queste visioni come se non gli appartenessero, con lo sbigottimento di chi le sente rimbombare, vicine e lontane, ma sempre come fantasmi imminenti, nella propria mente.