Scritto in uno stile magnetico, ondivago e sottilmente lisergico, Iperoggetti è un testo che, come ha notato McKenzie Wark, riesce a tenersi a metà strada tra teoria e poesia, in un visionario connubio tra speculazione filosofica, riflessione ecologista e illuminanti incursioni nel mondo delle arti e delle scienze. Col termine «iperoggetti» Timothy Morton designa entità di una tale dimensione spaziale e temporale da incrinare la nostra stessa idea di cosa un «oggetto» sia. L’esempio più drammatico è senza dubbio il riscaldamento globale, che a sua volta costringe l’essere umano a prendere coscienza che «non c’è un fuori» e che la nostra esistenza si svolge di fatto all’interno di una continua serie di iperoggetti. «Viscosi» e «non-locali», gli iperoggetti si appicciano alle nostre vite trascinandoci in una dimensione al contempo strana e inquietante: comprenderne il funzionamento, è per Morton il primo, necessario passo per ammettere che la fine del mondo è già avvenuta, e che non può più essere il feticismo per la natura del vecchio ambientalismo «folk» a fornire gli strumenti adeguati a quella coestistenza tra umano e non-umano imposta dall’Antropocene. Spaziando da Martin Heidegger ai My Bloody Valentine, da Immanuel Kant ai Wolves In The Throne Room, da Alphonso Lingis a John Cage, con Iperoggetti Morton firma uno dei testi cardine della cosiddetta Object Oriented Ontology od OOO (tra le più influenti correnti filosofiche contemporanee) e ci lascia in eredità un affascinante, commosso gioiello di «realismo poetico» sul nostro rapporto col pianeta nel pieno della catastrofe ecologica.