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Ritter, Dene, Voss

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Se famiglia e rituali sociali appaiono una prigione, se la fuga dalle proprie origini si rivela velleitaria, se tutto è stato già detto, se la ricerca di senso è puro balbettio, non resta che concepire la vita come acrobatico esercizio di resistenza artistica. «È come essere in un sepolcro qui siamo già belli e sepolti un magnifico sepolcro dove si servono i bignè viennesi fragranti.» Un pranzo di famiglia, due sorelle e un fratello, il suo ritorno a casa dopo un periodo di degenza in un ospedale psichiatrico. Nell’interno di una villa a Vienna il passato appare inestinguibile. Eppure da questa dolente costellazione Thomas Bernhard ricava scene di irresistibile comicità, come se solo un passo separasse la tragedia dalla commedia, il sublime dal ridicolo. Portato sulle scene a Salisburgo e Vienna nel 1986, Ritter, Dene, Voss costituisce forse l’apice teatrale dello scrittore austriaco, condensandone le tematiche preferite, a partire dalla vita come rappresentazione. Mettendo in scena l’eterna commedia umana, l’ossessione di assoluto che sovrasta l’imperfezione dell’esistenza, Bernhard gioca con la biografia di Ludwig Wittgenstein. Ma le vicende del filosofo sono solo un materiale per l’illusione dell’arte.