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di Antonio Cipriani

Scrivimi quel verso che è lo schianto e il rompersi del canto. Picchia sull’incudine del buon senso la parola martellante di Lello Voce, picchia d’acciaio e forgia forma e gesto, lingua e bellezza che fa poesia, destreggia il canto rompendolo in dieci e poi in cento colpi di martello, l’incudine fa da cassa armonica e la trappola è pronta.
Il fiore inverso leggilo con le orecchie. Così tu che l’hai ascoltato sei caduto. Niente equilibrio, niente requie né passione addolcita dal verso o dalla tiepida lettura da parco, nell’attesa dell’amore, o che la tempesta schiuda l’orizzonte di uno sguardo perduto. Qui la pietra è pietra, e prende il sopravvento. La voce di Lello rimbomba, è destinata a risuonare nel canto che irrompe e schianta a ogni passo. Questione di misura. Nient’altro. Va fuori tempo da’ ad ogni suono l’altezza che lo spegne sciogli ogni ritmo cogli quel fiore che dura ormai da troppe ore.
Qui risplende il fiore inverso. Ar resplan la flors enversa è un sussurro rauco e io l’ho letto con le orecchie, maledetto che sei, poeta. Mi confondi e costringi in un piano obliquo in cui il rovesciare in versi di Raimbaut d’Aurenga, del trovatore provenzale che ti è apparso in visione in una notte di balletti, chiama alla sfida, laddove la brina non si sente né il freddo può tagliarla. E la poesia penetra. Non più muta, come affermi, affonda ed è fertile. E la pace dei versi che vanno a capo e ogni volta ti lasciano respirare è perduta. L’ho letto con le orecchie e agita i miei fiotti di mare, spuma e marosi. Destino marinaio per noi che siamo di terra ferma, siamo di terra secca. Veleggiamo di sconosciuti orizzonti e appendiamo sogni a seccare come mazzolini di fiori strappati dai campi. Che un giorno potranno forse intenerire un ricordo.
Ma quel giorno non è oggi. Ascoltare e leggere è accettare il rischio della guerra e della rivoluzione, ogni volta che lo accetto mi si spezza dentro qualcosa. Oggi è domenica, scricchiola il cuore e si frantuma delle sue certezze, perdendosi in un vento che non lascia niente d’intentato. La poesia scardina ogni maschera e senso comune, dando accesso a spazi di senso nuovo. Bisogna solo capire se ne vale la pena. Se conviene che strappi via il velo nell’ascolto feroce che vanga. O ripiegando le vele, tornare nel porto sicuro.
Ar resplan la flors enversa. Il fiore rovesciato della poesia che ci arriva dal canto trobadorico, come fosse rap e rovesciamento di tutto quello che fino a oggi cartapesta la vita, ci schiaffeggia nell’irrompere del canto. La poesia è un fare, una prassi. Fare poesia è essere poesia. Il fiore della poesia serve a rovesciarsi per rovesciare il mondo. Altrimenti è niente. Delicata, ultimo respiro. Vivere tutti morire meno.
Febbrile, nell’ascolto, traccio parole che forse neanche interpreterò domani. Le scorro con lo sguardo la grafia, sono appunti, sono solchi, stati d’animo irripetibili che valgono solo il gesto in cui terminano. Sono lì e basta. Hanno accecato il lavoro tagliato la lingua ad ogni ribellione frantumato i timpani della memoria strappato il cuore a ogni sentimento bruciato i polpastrelli d’ogni sensazione. Così la voce di Lello Voce ritma. La musica illumina le pieghe delle parole. Le zone oscure su cui tutto il linguaggio si tiene, si fonda, si dà senso, ma che nessuna parola può esprimere. È la poesia tradotta in musica.
Siamo barbari. Mi piace questo sentiero che si inerpica, che rispetta e tradisce la tradizione, riporta la parola all’origine, al suono. E qui si intreccia il lavoro di Frank Nemola, la poesia di questo fiore parla due lingue contemporaneamente. Ce lo spiega il poeta e lascia per strada l’indizio: ogni vera poesia è sempre un po’ analfabeta. Che a me piace vedere oltre gli orizzonti dei tradimenti, della rassegnazione, della disonestà scintillante e di successo così: ogni vera poesia è barbara. Lascia la parola dàlle voce e poi inchiodami.
Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura
e chatz la lebre ab lo bou
e nadi contra suberna.

Io sono Arnaut che riempie di vento i suoi granai e va a caccia della lepre su un bue e nuota controcorrente. Nel fiore inverso leggo questa furia, la bellezza del canto quando spezza il muto accomodamento, l’ironia del balbettìo, del vivere tutti morire meno, della purezza del gesto semplice, della cura e dell’amicizia, di quel mettere a fuoco rivoluzioni che possano rovesciare il senso e incendiare le praterie dell’immaginario. Di questo sacro barbarico abbiamo bisogno per riprendere a sfidare gli dei.

Ps
Info: Il fiore inverso, di Lello Voce e Frank Nemola. L’editore è Squilibri. I disegni originali e la copertina sono del grandissimo Claudio Calia. Con Lello e con Claudio, ai tempi di Palermo facemmo prima sull’Ora e poi su Tribù Astratte un lavoro spettacolare di poesia e graphic journalism sul G8 di Genova, sulla Diaz, su Carlo Giuliani. Una controinchiesta con i controfiocchi. A caldo: la prima, la migliore. In quel 2001 loro erano sul campo, come inviati, a Genova insieme con due giovani croniste, Manuela Collarella e Caterina Coppola che dormivano nella Diaz ed era lì la notte del massacro. Al telefono si piangeva, per i lacrimogeni e per la rabbia. Non abbiamo mai dimenticato né quei giorni di sangue e ferocia, né lo spirito che ci ha portato a pensare che due artisti e due giovanissime potessero narrare meglio e più profondamente la realtà. Spiazzandola, rovesciandone le consuetudini, da barbari come siamo e saremo.

Ascolta un brano
Track 1: Il Fiore Inverso

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