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Di Matteo Minelli

#AgriCulture3

Chi ha avuto la fortuna di vivere in una famiglia dai trascorsi contadini, in cui i racconti del passato condiscono il pranzo domenicale meglio dell’olio nuovo, potrà rendersi conto di quanto lontano sia quel mondo di cui ancora i nostri nonni fantasticano tra una portata e l’altra. Un mondo tanto lontano che i figli e i nipoti di quegli uomini e quelle donne che hanno passato la vita con la terra fino alla cintola dei calzoni non riescono a distinguere una zucchina da un cetriolo.

Nel secondo dopoguerra, mentre il Paese annaspava per rimettersi in carreggiata, quasi metà della popolazione italiana era impiegata in agricoltura, con picchi in alcune regioni ben superiori al 50%. Intere famiglie si spezzavano la schiena nei campi per nutrire l’Italia e alimentare con il loro lavoro quel miracolo economico che non gli diede e non gli riconobbe nulla. Erano gli anni cinquanta, gli anni del boom, in cui la nostra agricoltura, specie nelle regioni centro-meridionali, veniva vista solo come un freno allo sviluppo nazionale. Perciò, dopo un decennio di dibattiti su come sarebbe dovuto diventare il settore primario, il governo varava il “piano di sviluppo agricolo”, il cui intento fondamentale era modernizzare l’ambito della nostra economia considerato più arretrato e inefficiente.

Il treno della cosiddetta “Rivoluzione verde” giungeva anche in Italia, benedetto dai tecnici e dagli uomini di scienza, incentivato dalle istituzioni e accolto con favore da tutti quelli che credevano nella modernizzazione e nel progresso. I contadini stessi finirono per essere travolti da questo febbrile entusiasmo. E così mentre i nuovi trattori mandavano in pensione le coppie di buoi, stanchi ed infelici, mentre i diserbi, concimi chimici e pesticidi prendevano il posto della zappa, dello stallatico e dei rimedi fatti in casa, mentre la monocultura selezionata sostituiva le coltivazioni tradizionali, gli uomini dei campi sognavano un futuro roseo in cui meccanica, chimica e genetica non solo avrebbero sfamato un’umanità sempre più numerosa ma soprattutto l’avrebbero fatto senza che milioni di schiene ogni mattina si piegassero sotto il peso del lavoro tra la terra.

A distanza di cinquant’anni possiamo dire che non soltanto quel sogno non si è mai avverato ma che anzi, nuovi e più cupi incubi sono prima comparsi all’orizzonte e poi si sono materializzati in una realtà quotidiana sempre più allarmante.

Allarmante perché, mentre Nutrire il pianeta continua ad essere lo slogan stantio di chi persiste nel correre su una strada lastricata di fallimenti, la fame non è stata affatto sconfitta. Sessant’anni fa si diceva che l’innovazione nel settore primario era fondamentale per ridurre le carestie e sopperire al crescente fabbisogno alimentare. Ebbene dal 1950 ovunque, e specialmente nei paesi più avanzati, le rese agricole sono costantemente aumentate; eppure siamo ancora bombardati da pubblicità strappalacrime in cui veniamo invitati a donare qualche euro per salvare la vita di poveri bambini che non mangiano da giorni. Oggi, mentre si continua con i proclami “zero fame”, più o meno un miliardo di persone vengono classificate dalla FAO come denutrite o malnutrite. E questa situazioni purtroppo è ben lontana dall’essere risolta. Anzi per gli affamati di tutta la Terra si prospettano periodi probabilmente più bui di quelli che stanno vivendo. E questo perché la fame nel mondo non può essere risolta soltanto dall’aumento delle rese agricole, essendo una questione molto complessa e legata a molteplici fattori. Sistema economico profondamente iniquo, modelli produttivi completamente sbagliati, sprechi alimentari, cattiva distribuzione del cibo, sovrappopolazione, cambiamenti climatici, politiche insufficienti e spesso dannose di lotta alla denutrizione,  concorrono in diversa misura, stabilite voi in quale ordine di importanza, ad impedire che venga definitivamente debellato questo male secolare. Non soltanto l’agricoltura industriale non ha sconfitto la fame nel mondo, ma anzi può contribuire in maniera determinante a peggiorare nel lungo periodo la condizione degli affamati, visto che finisce per impoverire i suoli, inquinare l’ambiente e diminuire la produttività dei terreni.

Allarmante perché la Rivoluzione verde se da un lato ha ridotto notevolmente il numero degli occupati dall’altro non ha affatto contribuito a cancellare alcuni degli aspetti più faticosi della vita dei campi. Anzi ha introdotto nel settore elementi di pericolosità praticamente sconosciuti in passato. Basti pensare al fatto che, a fronte di una percentuale di occupati nel primario che in Italia si attesta intorno al 6%, i decessi sul lavoro in agricoltura rappresentano più del 30% di tutte le morti bianche. A queste morti vanno aggiunte le moderne malattie professionali, in alcuni casi assai serie, legate a doppio filo all’utilizzo di tutta una serie di sostanze chimiche altamente cancerogene: benzene, arsenico, idrocarburi aromatici e alifatici, acidi, zolfo, formaldeide, diazine, triazine, chinoni, paraquat e molte alte ancora. Per non parlare infine delle condizioni miserevoli, tra sfruttamento, caporalato e vero e proprio schiavismo in cui versa buona parte della manodopera che lavora in questo settore, che vanta i salari più bassi, le tutele minori e i rischi maggiori.

Allarmante perché se l’agricoltura industriale non ci ha dato nulla al tempo stesso ci ha tolto tantissimo.  Ci ha tolto innanzitutto la società contadina, la sua conoscenza straordinaria della terra e della vita che essa genera, la sua capacità di stare ai ritmi della natura, la sua mutualistica e solidale organizzazione familiare, le sue lotte per l’emancipazione sociale. Ci ha tolto gli autentici prodotti dei nostri territori, sostituendoli con varietà selezionate artificialmente che pensavamo essere più produttive ma si sono dimostrate più deboli ad attacchi fungini e parassitari. Ci ha tolto la sicurezza alimentare: la possibilità di consumare prodotti realizzati senza l’utilizzo di trattamenti chimici, pesticidi, fungicidi e fertilizzanti di sintesi. Ci ha tolto la possibilità di vivere in una campagna non inquinata, in cui l’ambiente e tutte le forme di vita che lo abitano siano autenticamente rispettate.

Per riprenderci tutto ciò che ci ha tolto c’è una sola strada. Andare avanti, superare la Rivoluzione verde, e tornare autenticamente nei campi, con le mani nude e la voglia di imparare,perché, come dicevano i vecchi contadini, “viene tutto dalla terra”.

Gli altri articoli di questa rubrica: #AgriCulture1, #AgriCulture2.

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5 commenti su “La Rivoluzione verde tra bugie e perdite irreparabili

  1. Stiamo degradando e impoverendo i suoli, inquinando l’acqua.
    Mangiamo cibi avvelenati.
    I contadini non riescono a sopravvivere con un piccolo pezzo di terra come una volta.
    Devono comperare macchinari costosi.
    Meglio uscire da questa rivoluzione verde, che ha un bel nome ma cancerogeni, devastanti e frustranti effetti.

    1. Purtroppo è così Gianni dobbiamo uscirne e alla svelta, presto parlerò di quelle che ritengo le uniche alternative possibili a quest’agricoltura fatta di morte e distruzione. Un abbraccio.

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