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di Matteo Minelli

 

#MorireDiCiviltà/#OltreLaCiviltà

Siamo abituati a pensare che la salute di coloro che non possiedono antibiotici e disinfettanti, betabloccanti e aspirine, sia mediocre e precaria. Crediamo che l’assenza di una scienza medica basata sul metodo galileiano provochi in qualsiasi società ondate di morti premature, decessi incontrollati, malattie terribili e catastrofi bibliche. Sarebbe da chiedersi allora come la nostra specie e tutte le altre che abitano il pianeta siano vissute, prosperate e abbiano colonizzato ogni palmo del suolo terrestre in milioni e milioni di anni senza avere dalla loro una coppia di Curie, un Fleming o un Von Behring. Eppure nell’era in cui la scienza empirica e razionale crede di poter fare a meno della morale, assurgendo a dogma ben più radicato della Verginità di Maria di Nazareth, nessuno si domanda come questo homo sapiens, che per duecentomila anni ha camminato, cadendo e rialzandosi, senza che nessun luminare lo prendesse per mano, sia arrivato fino a Galileo vivo e vegeto.

Ce lo spiegano bene i popoli tribali, che per millenni hanno goduto di ottima salute. Molti potrebbero storcere il naso di fronte a quest’affermazione, convinti che solo la medicina contemporanea sia in grado di preservare e migliorare la condizione dei nostri corpi. In verità il concetto di salute, che spesso a livello televisivo sentiamo equiparare al contraddittorio ma sempreverde dato sull’aspettativa di vita, è molto più ampio e complesso dell’idea ridotta a cui  parecchi di noi fanno riferimento, compresi i protagonisti di dotti salotti scientifici. Per salute, come ha sottolineato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, non possiamo intendere soltanto l’assenza di malattie, bensì uno stato “di completo benessere fisico, psichico e sociale”. Pertanto è da ritenere in salute una persona che non soltanto ha una mente e un corpo sano, ma che si sente inclusa e realizzata nei contesti in cui vive e che trova pienamente soddisfatti i suoi desideri e le sue aspettative.

Ebbene questa condizione, non prendiamoci in giro, è irrealizzata nella stragrande maggioranza degli uomini e delle donne appartenenti alla società in cui viviamo. Viceversa tra quei popoli tribali di tutto il pianeta che ancora oggi mantengono l’originale stile di vita, è riscontrabile una ottima condizione psico-fisica sommata ad una straordinaria qualità della vita, basata sulla stabilità e longevità dei legami sociali, sulla condivisione delle avversità e dei momenti di gioia, su quella che è stata definita sicurezza dalla culla alla tomba.

Yanomami boys practising hunting, Amazon, Brazil
Yanomami cacciano nella foresta amazzonica, Brasile

Ma anche se volessimo, in preda ad una concezione minimalista del concetto di salute, utilizzare i nostri paradigmi per analizzare lo stato fisico dei popoli tribali, ci accorgeremmo che il loro stato fisico è ben lontano dall’immaginario pregiudizievole a cui facciamo riferimento. Innanzitutto tutte le principali malattie che fanno strage nelle società civilizzate sono molto rare o praticamente sconosciute nei contesti tribali. Ipertensione, diabete, ictus, infarti, arteriosclerosi, demenze e cancro non rappresentano di certo le prime cause di morte tra i Sentelinesi e i Piripkura. Lo stile dei vita dei popoli tribali, la loro alimentazione, la qualità degli ecosistemi in cui hanno vissuto li rendono generalmente sani dalla nascita fino alla morte. Morte che non è mai l’ultimo atto di una patologia cronica ed incurabile, che comporta in ogni caso un peggioramento, talvolta drastico, della qualità di vita, ma piuttosto un rapido trapasso privo di molte delle conseguenze sociali ed umane che le NCD ( Non communicable disease/Malattie non trasmissibili) comportano.

Snelli, elastici ed energici, gli uomini delle tribù hanno storicamente vissuto in perfetta salute la loro vita, sulla cui durata dobbiamo comunque spendere due parole. Lo stereotipo secondo cui l’aspettativa di vita nei contesti tribali sia brevissima è assolutamente falso. Come è falso quello secondo cui l’aspettativa di vita degli uomini civilizzati sia in costante aumento. Basta scorrere la lista annuale compilata dalle Nazioni Unite su quasi duecento paesi per vedere che ce ne sono alcuni in cui la speranza di vita tende negli ultimi anni a decrescere (Siria, Afghanistan, Iraq ad esempio), e che ce ne sono parecchi in cui questa risulta essere nettamente inferiore a quella di alcune tribù. L’aspettativa di vita di 42 anni di un afghano o quella di 41 anni di un cittadino della Sierra Leone sono sicuramente inferiori a quelle che, un tempo, potevano vantare Boscimani e Inuit,  Yanomani e Awa.

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Warwick Thornton, regista aborigeno, ha realizzato questa e altre immagini per richiamare l’attenzione sui gravi problemi di salute della sua comunità (Survival International).

Purtroppo abbiamo dovuto dire un tempo perché oggi moltissime tribù vivono un drastico peggioramento del loro stato di salute. L’allontanamento coatto dalle terre ancestrali, l’obbligo di cambiare usi e tradizioni, la contaminazione degli ecosistemi natii, l’integrazione forzata, hanno radicalmente modificato lo stile di vita di queste genti. I lavori usuranti e malpagati, l’alcolismo, il consumo di droghe, le bevande zuccherine e ipercaloriche, il cibo spazzatura, un’esistenza sedentaria, stanno minando la condizione fisica dei popoli tribali mentre la distruzione della propria cultura, la dissoluzione dei legami familiari e sociali ne distrugge al contempo lo spirito. Le malattie fisiche e psicologiche portate dalla Civiltà hanno tra i popoli tribali conseguenze ancora più nefaste di quelle riscontrate nelle nostre società. La scarsa conoscenza delle patologie, l’isolamento, la mancanza di cure mediche adeguate, un minor accesso ai farmaci rendono l’impatto delle NCD catastrofico (in Australia, ad esempio, un aborigeno corre un rischio ventidue volte maggiore rispetto a un bianco di morire di diabete).  E così popoli che vivevano in buona salute ed erano in grado di trasmettere importanti conoscenze sulla preparazione e sull’utilizzo di rimedi naturali efficacissimi, hanno oggi, grazie al nostro indispensabile contributo, una qualità di vita pessima.

Concludendo, oltre ad auspicare che governi e istituzioni permettano ai popoli tribali ed indigeni di tornare a decidere liberamente come vivere, dovremmo tutti riflettere su cosa significhi per noi essere in salute, sulla qualità della nostra esistenza, sulle aspettative che abbiamo per il futuro. Forse scopriremmo che nel baratto che ci ha visto allungare di qualche anno la nostra vecchiaia, abbiamo perso una vita intera.

 

Leggi gli altri articoli delle rubriche #MorireDiCiviltà e #OltreLaCiviltà.

Leggi l’articolo di Survival International sulla campagna fotografica di Warwick Thornton.

5 commenti su “Salute e tribù: un binomio distrutto solo dalla Civiltà

  1. WoW !
    Articolo bellissimo.
    Grazie per averlo condiviso.
    La salute è in gran parte il risultato di relazioni serene, fra i componenti del gruppo sociale umano, e fra il gruppo e il pezzo di natura in cui vive, se rispettata nei suoi equilibri ecologici.
    Sono d’accordissimo.

    Gianni Tiziano

    1. Gianni grazie ancora per la lettura attenta e partecipata che fai di questi articoli. Ho visto ora che in un commento ad un altro articolo mi avevi chiesto la mail. Adesso te la giro al tuo indirizzo di posta elettronica. Grazie ancora.

  2. Buonasera, articolo molto bello e interessante, sul quale mi trovo più che d’accordo. Dove posso trovare fonti e studi a conferma di quanto viene affermato?

  3. Ciao, bell’articolo, ti chiedo se posso scriverti per avere fonti riguardo all’argomento, che cerco di approfondire da diverso tempo. grazie.

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