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di Matteo Minelli

 

L’espressione “guerre di religione” ultimamente è tornata sulla bocca di tutti. A partire da coloro che vogliono riproporre, in veste contemporanea, i vecchi scontri tra crociati e maomettani; passando per quelli che ritengono di trovarsi dinnanzi a battaglie geopolitiche mascherate da conflitti confessionali; fino a chi, sostenuto dal proprio ateismo, bolla tutte le forme di culto come il male assoluto; tutti sembrano inquadrare i fenomeni religiosi dentro archetipi sclerotizzati.

Il fatto è che per noi uomini civilizzati, buone o cattive che siano, le religioni sono tali soltanto se rispondono a certi parametri. Innanzitutto deve esserci almeno un Dio; dico almeno uno perché le Civiltà politeiste avevano l’ardire di adorarne parecchi tutti insieme. Questo Dio, o questi Dei, devono somigliarci, totalmente o parzialmente non è importante, ma occorre che siano un po’ simili a noi. Poi è molto probabile che ci siano dei profeti: divini, semi-divini o carnalmente terreni non fa differenza, basta che ci spieghino chi è il nostro Dio, quale sia la sua volontà e cosa ci riserva per il futuro. In terzo luogo servono assolutamente dei sacerdoti, dei ministri del culto: celibi o scapoli, ciecamente visionari o con i piedi ben piantati negli affari profani, serve soltanto che ci spieghino dove, come e quando onorare la divinità e soprattutto a quali codici morali ci dobbiamo strettamente attenere, pena l’eresia, la scomunica, la dannazione eterna. Necessitiamo anche di luoghi di culto specificatamente destinati alla glorificazione di Dio e infine riteniamo importanti i libri sacri, che, interpretati o meno da un clero professionale, ci introducano alla comprensione di tutto ciò che ci circonda. Ma soprattutto abbiamo tremendamente bisogno di un messaggio salvifico, che di solito si basa su tre punti cardine. Primo: l’uomo è imperfetto e corruttibile. Secondo: il mondo ci è ostile e la vita su questa terra è in ogni caso densa di sofferenze e lacrime. Terzo: le anime pure sono destinate ad una vita ultraterrena straordinaria in luoghi come Paradiso, Nirvana o Jannah, dai quali sono banditi dolore e dispiacere.

Ovviamente queste ultime righe sono una semplificazione assai superficiale di complesse visioni teologiche che accomunano le confessioni delle principali Civiltà. Comunque, più che riflettere sulle somiglianze che legano, in modo particolare, le grandi religioni monoteiste rivelate, è importante negare che tali caratteristiche siano universali e assolute, riaffermando l’esistenza di culti totalmente diversi da quelli che noi siamo abituati a concepire. Ci sono uomini e donne per cui non esiste un Dio, non esistono luoghi di culto, non esistono sacerdoti e nemmeno testi sacri e più di ogni altra cosa non esiste alcuna narrazione salvifica.

Stiamo parlando delle tribù e di tutto quell’insieme di ritualità, preghiere, venerazioni e tabù che vengono definiti animismo. I popoli tribali sono convinti che all’interno di qualsiasi elemento vi sia un’essenza spirituale ed intangibile: l’anima appunto. La prima grande differenza tra le religioni della Civiltà e quelle tribali è legata proprio al concetto di anima. Secondo Cristianesimo, Islam, Ebraismo e via discorrendo solo gli esseri umani possiedono un’anima, pertanto solo essi posso avere un rapporto autentico e privilegiato con la divinità. Tale concezione è la naturale conseguenza della visione totalmente antropocentrica su cui si basano le religioni monoteiste rivelate (e non solo quelle). Come non menzionare a tale proposito il passaggio della genesi “facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”, dal quale emerge chiaramente l’idea delle specificità e della preminenza umana. Viceversa nei culti tribali ogni essere vivente e ogni elemento naturale, proprio perché contengono un’anima, meritano rispetto e attenzione.

Particolarmente esemplificativo di tale visione è il rapporto che i cacciatori tribali instaurano in generale con gli animali e specialmente con le loro prede, spesso oggetto di autentica venerazione. I cacciatori Ottawa, ad esempio, dopo aver ucciso un orso chiedevano all’animale di non serbare rancore nei loro confronti, poiché lo avevano ammazzato solo per placare la fame dei propri figli. Gli indigeni del Madascagar che andavano a caccia di balene, domandavano perdono alle madri degli esemplari uccisi, invitandole a scendere negli abissi marini affinché non fossero straziate dai lamenti dei propri figli morenti. Gli Stien della Cambogia offrivano sacrifici propiziatori alle loro prede e nei casi in cui ad essere ucciso era un elefante celebravano sette giorni di lutto.

Una seconda differenza fondamentale è quella che riguarda l’organizzazione delle credenze e delle pratiche religiose. In molte culture tribali, tipicamente quelle dei gruppi dediti alla caccia e alla raccolta, la forma più basilare di culto, ovvero quella individuale, è preminente. Ogni persona è esperta delle questioni religiose e pratica in totale autonomia i propri rituali, entrando in contatto con le forze naturali che animano l’ambiente in cui vive al fine di esercitare controllo su di esse o, più spesso, per ottenerne protezione. Ne sono un esempio gli Inuit. Costretti a confrontarsi, da soli o in piccolissimi gruppi, con un ambiente che noi considereremmo completamente ostile; capaci di muoversi sui ghiacci, affrontare tempeste di neve e sopravvivere a notti che durano mesi; essi credono che la propria sopravvivenza non sia legata principalmente all’esperienza e alla qualità dell’equipaggiamento ma che sia determinante la capacità di entrare in sintonia con gli spiriti e le anime con cui condividono le loro terre. Per questo ogni Inuit possiede una propria canzone (formata da un’insieme di canti, preghiere e formule magiche che eredita dai propri antenati) e porta sempre una borsetta legata intorno al collo, contenente oggetti corrispondenti a spiriti benefici e protettori.

Altri elementi di profonda differenziazione sono l’assenza di profeti, luoghi e testi sacri, e, infine, caste sacerdotali. Esistono soggetti, gli sciamani, a cui la comunità riconosce particolari capacità e l’abilità di entrare in contatto con le forze che noi definiremmo soprannaturali. Tuttavia queste figure, che possono essere anche molto numerose in ogni gruppo tribale, non hanno il monopolio del culto, non lo trasmettono al resto della comunità e possiedono numerosi compiti che nella nostra società sono al di fuori delle competenze delle autorità religiose. Gli sciamani curano malattie, prevedono il futuro, ritrovano oggetti perduti, scacciano maledizioni, conferiscono immunità in combattimento e successo in amore. Essi, inoltre, nella maggior parte delle culture, non svolgono tale ruolo a tempo pieno e diventano tali grazie alla capacità di entrare in trance e non in subordine all’adesione a determinati dogmi o all’ingresso in qualche ordine ecclesiastico.

L’ultima grande differenza è che i popoli tribali non sono convinti che il mondo sia un luogo crudele e malvagio nel quale siamo destinati a patire sofferenze e dolori e non credono che per colpa del peccato originale siamo destinati alla sofferenza e alla dannazione. Essi ritengono che la vita sia un’esperienza straordinaria e che la terra sia una madre accogliente; pertanto non necessitano di narrazioni salvifiche e teorie che spingano ad immolarsi in funzione dell’esistenza ultraterrena.

Parafrasando James G. Frazer, possiamo concludere che “i selvaggi” estendono ad ogni aspetto del creato la teoria che gli uomini civilizzati sostengono solo per se stessi. Quella teoria secondo cui la vita si spiega attraverso l’esistenza di un anima interna ed immortale. Il fatto è che i popoli tribali, dimostrandosi assai più generosi e forse più razionali di noi, credono che gli altri animali (e magari anche i fiumi, le nuvole e le montagne) abbiano intelligenze e sentimenti uguali ai nostri e in conseguenza di ciò possiedano anch’essi un’anima che, una volta sopraggiunta la morte carnale, faccia percorsi del tutto similari alla loro. Questa che molti considerano una rozza filosofia intrisa di superstizione e ignoranza, ha permesso loro di vivere in armonia con il proprio ambiente e con tutte le forme di vita. Per questo, forse, l’animismo è l’unica religione che possa salvare il futuro della nostra specie.

6 commenti su “L’animismo, l’unica religione che può salvare la specie

    1. Grazie ancora Gianni, ovviamente siamo orgogliosi dei tuoi commenti e degli apprezzamenti tuoi e degli altri lettori.
      Stiamo lavorando anche su una pubblicazione cartacea che affronti questi temi per continuare a diffondere un messaggio alternativo su questo come su altre temi che ci sono cari. Un abbraccio, a presto.

  1. Mi aggrego a Gianni, grazie per questo articolo toccante, è un peccato che ci sia questo schifoso pregiudizio sugli indigeni quando dovremmo prenderli come nostro esempio.

    1. Grazie per il commento Fabio. Un’analisi scevra da qualsiasi pregiudizio etnocentrico è il punto di partenza indispensabile per confrontarci con popoli e culture diverse dalla nostra.

  2. Trovato per caso ….ma esiste il caso ? …apprezzato per consapevolezza ed appartenenza. Grazie …il tuo articolo vive ,respira e da respiro .

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