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di Alberto Brizioli 

Galileo non si è mai preso una vera rivincita.

La chiesa avrà ammesso i propri errori ma noi conserviamo l’idea di essere al centro dell’universo.
Guardiamo il sole pensando che stia calando.
E il metodo sperimentale non basta a convincerci che sia la terra a passare oltre.
Lo declassiamo a corteggiatore, il sole.
Ma siamo noi che gli danziamo intorno dall’alba dei tempi, eterni respinti.

Sub Club non è un nome di fantasia.
Si tratta del ricavato di un bunker antiatomico sovietico.
Una placenta di sonorità elettroniche nel cuore della collina che ospita il castello simbolo della città.
Un tunnel zebrato di pochi metri ipnotizza gli speleologi della deep house all’ingesso nel loro paradiso.
Una svolta e si costeggiano i bagni.
All’altezza di quello delle donne due ragazze cercano il coraggio di ingerire qualcosa.
Deve essere la loro prima volta, non si decidono.
Passo oltre.

La pista da ballo è ordinata dall’assenza di interazione fra individui.
La ritmica è ripetitiva, maniacale.
All’altezza del bar incrocio un palestrato che indossa solo un giubbotto di pelle sul torso nudo.
Appena scomparso dalla mia vista mi tira un sottocosta da dietro.
Per fortuna mi prende di striscio.
Non capisco il gesto, sono spiazzato.
Incasso in silenzio, devo mantenere il profilo basso.
In pista un controluce stroboscopico illumina una lingua che espone fiera una pillola.
A rompere questa visione un altro pugno, questa volta ben assestato.
Mi giro di scatto in un istinto d’ira.
Un pelato alto al massimo 1,60 mi guarda con aria di sfida.
Non aspetta che una mia mossa per partire all’attacco.
Forzo un sorriso e mi rigiro.
Qui la legalità non sembra un problema.
Il problema sono le persone.
La mia mano destra cinge una pasticca tra indice e pollice.
Temo che il sudore che cala dai polpastrelli la possa sciogliere.
Una rapida occhiata intorno.
Individuo un ragazzo solo, forse anche annoiato.
Esito ad avvicinarmi, come quando non si trova il coraggio di invitare una ragazza a ballare.
La materia granulosa della pasticca inizia a ricalcare le mie impronte digitali.
Con lo sguardo rivolto altrove mi avvicino.
La mano vaga nel vuoto in cerca di un appiglio.
Trovo una falange.
Afferro tutta la mano e spingo col pollice la pasticca in mezzo al suo palmo.

Aspetto che lo chiuda e vado via.
La coda dell’occhio fa da spettatrice all’assunzione.
La testa che si piega all’indietro a trovare il conforto del muro.
La serotonina che avanza. Perdo il contatto visivo.
Frugo in tasca, ho ancora un pugno di roba da piazzare a gratis.
La regola è chiara, gratis e solo a chi non ne abbia già prese.
Non chiedetemi chi (o come) tragga profitto da questo traffico.
Non mi interessano le anomalie del caso.
Io eseguo, come l’operaio che svolge il suo ruolo nella catena di montaggio senza vederne la fine.
Ma non è facile trovare 30 persone non stupefatte qui dentro.
Mi rimetto al lavoro.
Piazzo altre tre pillole.
Alla quarta avvisto un gruppo di tre ragazzi.
Penso bene di accorciare i tempi ampliando l’utenza.
Mi approssimo alle prede con fare distratto.
Libro il pugno pieno di felicità a mezz’aria.
La prima barriera che incontro però, è il fianco di uno dei tre.
Aggiusto la traiettoria ma vengo prontamente squilibrato da uno spintone.
I tre ragazzi, di cui uno molto più alto e munito di una cresta impeccabile, mi puntano.
Nella confusione si perdono insulti che non avrei compreso.

Alzo le mani a proclamare la mia innocenza.
Pare ci tengano però, a rivendicare la sommarietà della propria giustizia.
Il mio peso si sposta all’indietro e, con la complicità di un altro spintone, le mie suole scoprono una prospettiva per loro inedita:
il soffitto.
Una caduta, in posti come questi, non fa notizia.
Quello che fa notizia sono 20 e più pasticche che si spargono sul pavimento appiccicoso della pista.
Penso alla cosa migliore da fare, ma si sa che il pensiero non fa bene all’azione, così comincio a correre, e dalla corsa scaturisce altra corsa.
A ogni passo il TIC di una delle pillole al suolo mi pugnala tardivamente.
Il cuore bussa con forza alle costole.
Non passa nessuno, saranno le 3.
Un piccolo pezzo di lungofiume mi porta all’imbocco del ponte SNP.
Sfreccio lungo il passaggio pedonale.
I neon che lo illuminano sono corsie luminose per la mia maratona.
L’ondeggiare del mio capo ne deforma le geometrie.
Il fiume incombe sulla destra con la densità oscura del petrolio.
Mi fermo.

L’adrenalina non da pace ai miei muscoli.
Sobbalzi continui e incondizionati ne scuotono le fibre.
Il respiro fatica a rallentare.
Il cuore cerca di fuoriuscire attraverso le vie respiratorie.

“AH!” una mano si appoggia di sorpresa sulla mia spalla.
Mi giro ed è lei.
Sorride come se tutto andasse bene.
I suoi occhi mi sfiancano.
Il contatto visivo è rotto da due banconote che si insinuano sulla mia mano sinistra.
Sono 40 euro.
“10 per ogni pasticca piazzata”
“Domani alle 7 a Petržalka, ecco l’indirizzo” conclude imbrattandomi il polso con un pennarello.
La sua mano scivola sull’attaccatura della mia coscia, mentre lei si volta e fila via, guidata dai neon del ponte.
Un’erezione preme contro i bottoni dei miei levis.
Mi chiedo dove vada, sempre spedita, questa creatura.

Chi ha questa decisione, o conosce la propria meta, o ha imparato che è sempre la morte l’unica vera destinazione.
In ogni caso, benché non vorrei ammetterlo, questa francesina mi ha in pugno.

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