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Correva l’anno 1859. La guerra in corso tra il Regno di Sardegna e l’impero austroungarico riscaldava i cuori dei patrioti italiani. Convinti che l’unità nazionale fosse vicina, in molte città del centro Italia, i rivoltosi insorgevano invocando il nome di Vittorio Emanuele II. Perugia non poteva mancare all’appello. Qui, il 14 giugno, venivano cacciate le autorità papaline e formato un governo provvisorio. Purtroppo la libertà cittadina durò poco, stroncata dalle truppe mercenarie pontificie che appena sei giorni dopo l’insurrezione, forti di 2300, soldati, cavalleria e cannoni assediarono e riconquistarono il capoluogo.

Noti sono gli orrori compiuti dalla milizia svizzera dopo la presa della città. Nefandezze che contribuirono a rendere questa pagina della storia cittadina indelebile nelle menti e nei cuori dei perugini, oltre a far assurgere questi tragici fatti alle cronache nazionali e internazionali. Pochi però, anche tra gli abitanti del centro storico, hanno mantenuto memoria di quello che è uno degli episodi più drammatici e al tempo stesso più eroici di quella giornata. Un episodio che ebbe importanti ripercussioni sulla nascita e lo sviluppo dell’assai nota facoltà di Agraria.

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San Pietro, il monastero in cui oggi sorge la facoltà di Agraria.

Tornado al terribile e glorioso XX giugno, i mercenari, una volte superate le ardimentose resistenze dei patrioti al Frontone, scelsero come primo oggetto delle loro brame il monastero di San Pietro. Luogo sacro che divenne suo malgrado teatro di numerosi atti di viltà e barbarie. Porte sfondate, arredi rubati, biblioteca in parte arsa e in parte distrutta, botti aperte e vino trangugiato. Nemmeno le statue dei Santi furono risparmiate: l’argentea corona di San Mauro e molti voti appesi alle immagini sacre vennero rubati, un effige raffigurante San Benedetto venne crivellata di colpi. Mentre si consumavano i saccheggi e le devastazioni alcuni malcapitati venivano gettati dalle finestre del monastero e nei corridoi gli svizzeri finivano i feriti della battaglia col calcio dei fucili e con le baionette.

Ma fu proprio in questo triste palcoscenico che Sante, al secolo Luigi Rossi, frate converso, seppe resistere al vortice della storia consentendo il salvataggio e poi la fuga di tre coraggiosi patrioti. Stiamo parlando di Mariano Guardabassi, Mariano Sabatini e Matteo Fagioli, che si ritrovarono imprigionati del monastero, da cui avevano opposto una fiera resistenza all’avanzata delle truppe pontificie. Nascosti nel corso della giornata dai benedettini, la sera del XX Giugno, quando i frati si recarono a salmodiare, i tre furono travestiti da religiosi e condotti in chiesa. Fu fra Sante ad individuare il pertugio perfetto: una stanzuccia segreta in cui erano collocati i mantici dell’organo di sinistra. Li restarono per ben tre giorni nutriti dal solito converso, che mentre si recava nella cappella con scopa e secchio, fingendo di dover adempiere alle pulizie quotidiane, celava sotto l’abito talare pane e companatico.

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Interno della chiesa di San Pietro.

Il comando svizzero inizialmente non sospettò nulla ma finì per essere messo in allarme da alcune voci che circolavano in città, forse alimentate dal racconto di tale Giovanni Ciambelli, anch’egli riparato e poi evaso dal convento, secondo cui vi erano dei patrioti nascosti a San Pietro. Molti soldati vennero allora sguinzagliati, fortunatamente senza successo, dappertutto nel monastero. Dopo le ricerche infruttuose i benedettini furono oggetto di minacce per nulla velate. L’abate Acquacotta non cedette alle pressioni e anzi allontanò alcuni dei monaci che erano sul punto di vacillare. Quando i ricatti degli svizzeri erano al culmine della loro efferatezza, si annunciavano imminenti fucilazioni di massa, il solito Fra Sante con l’aiuto di padre Pascali, già accanito tiratore al fianco dei perugini durante la battaglia del Frontone, escogitò un piano per far fuggire dal monastero i tre patrioti. Tagliate le corde delle campane e applicatele alla ringhiera di ferro che stava sulla finestra del piano del coro, chiamarono i tre rifugiati alle dieci e trenta del mattino, mentre gli svizzeri di stazza al convento ricevevano la paga, e li invitarono a scappare. La scalata fu effettuata rapidamente e senza difficoltà e i fuggitivi si dispersero nelle campagne, non prima però che Mariano Guardabassi rivolgendosi al caro Fra Sante gli promettesse che non avrebbero mai dimenticato la sua generosità.

Di li a qualche ora un gruppo di soldati chiesero di visitare la chiesa e il piano dell’organo. Guardarono in ogni cantuccio ma non trovarono il nascondiglio e ovviamente nemmeno i tre ricercati. Allora la compagnia uscì da San Pietro e si sparpagliò nelle zone circostanti, ma anche in questo caso ogni ricerca fu vana. Guardabassi, Sabatini e Fagioli erano ormai lontani, diretti verso la Toscana,  ormai già interamente sotto il controllo dei patrioti .

Fu proprio grazie a tale episodio e più in generale grazie al contegno tenuto dalla congregazione benedettina a cavallo degli eventi del XX Giugno che quando Gioacchino Napoleone Pepoli, all’indomani dell’Unità d’Italia, divenne “commissario generale straordinario delle province dell’Umbria” ed emanò il decreto che portava il suo nome, con cui i beni delle congregazioni religiose  venivano espropriati a beneficio del nascente stato, il monastero di San Pietro ebbe una sorte diversa. I benedettini ottennero infatti una proroga che  consentì loro di usufruire del patrimonio dell’abbazia  fintanto che almeno tre monaci legati direttamente ai fatti del XX Giugno fossero rimasti in vita. Quando nel 1890 il terzultimo frate rimasto morì fu attuata una legge del 1887 con cui si prevedeva che i beni del monastero di San Pietro fossero destinati alla creazione dell’Istituto d’istruzione agraria, che dopo varie vicissitudini prese il nome, nel 1936, di facoltà di agraria dell’università di Perugia.Un atto di pietà e disobbedienza, probabilmente preso d’impeto è stato fertile per la città e per la sua università.

 

Grazie al nostro P.V. che ci ha segnalato questo interessantissimo fatto.

 

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