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di Paolo Marchettoni

 

Oggi avrei dovuto accompagnare il lettore alla ricerca delle vestigia etrusche nel capoluogo umbro attraverso la neonata rubrica “Perugia etrusca”. Ma poi ho scoperto, con mia grande gioia, che a Città della Pieve c’era un ospite d’eccezione: Laris, l’ultimo degli Etruschi (ritrovati). Quindi ho pensato di propormi come inviato speciale dall’Etruria per Emergenze.

Così, sabato 19 dicembre 2015, in qualità di Ministro del Territorio di Emergenze, ho partecipato alla conferenza pubblica di presentazione dei ritrovamenti etruschi emersi in seguito alla scoperta archeologica, sensazionale e del tutto casuale, di una tomba a camera etrusca rinvenuta nella località pievese di San Donnino alla fine del mese di ottobre scorso. Una scoperta di importanza unica che passerà alla storia. La conferenza si è svolta nella stupenda chiesa sconsacrata di Santa Maria dei Servi straripante di persone. La chiesa ospita al suo interno il Museo Civico-Diocesano di Città della Pieve, che tra l’altro è il Paese dove sono nato, dove si possono ammirare i ritrovamenti.

Adesso vi aspetterete un articolo su Laris l’etrusco pievese e la sua tomba, e invece eccovi alcune considerazioni sull’arte etrusca…

La critica artistica nel passato negava alle opere etrusche una qualsiasi dignità d’arte. Quella critica autorevole figlia dell’Ottocento (secolo autorevolissimo nel mondo dell’archeologia) discendeva dagli insegnamenti di Winckelmann, secondo cui come noto la Bellezza è nell’arte classica greca e nelle sue imitazioni successive. Hanno giocato un ruolo notevole nel discredito dell’arte etrusca anche i giudizi dei Romani che, altrettanto autorevolmente e anche un po’ autoritariamente, hanno annientato la civiltà etrusca, ma che in fondo inconsapevolmente l’hanno tutelata assorbendola artisticamente e non solo, mentre la distruggevano militarmente. Per molto tempo l’arte etrusca è stata considerata una manifestazione provinciale dell’arte greca, priva di originalità e dunque senza valore, tant’è che i ritrovamenti più pregevoli rinvenuti in Etruria venivano prontamente attribuiti ad artisti greci. Poi la stessa critica, forse anche con un pizzico di autocritica, si è liberata dai presupposti winckelmanniani e ha finalmente riconosciuto la dignità artistica alle testimonianze etrusche e di tanti altri popoli italici che avevano vissuto, amato, creato, lottato e infine erano morti nella “Terra dei Vitelli” sotto l’ombra degli ulivi, che per i Greci erano piante sacre.

Noi siamo consapevoli che non si tratta di discutere sul primato di un arte o di un popolo rispetto a un altro. La realtà è sensibile e la verità è sempre stata sotto ai nostri occhi e non è di certo mutata col passare dei secoli. Nemmeno i nostri occhi si sono trasformati, sono sempre due e mai simmetrici l’uno con l’altro. Eppure qualcosa è cambiato. Allo studioso col piglio dell’archeologo basterà dire: “I ritrovamenti di Pompei hanno riportato alla luce i colori (che Winckelmann non era riuscito a vedere) che hanno rimesso in discussione i canoni dell’Arte Classica e di conseguenza anche il concetto che avevamo di essa”. Ed è veramente andata così. Basti pensare che oggi gli studi sulla policromia sono utilizzatissimi in archeologia, dai più grandi monumenti fino ai più piccoli oggetti. Allora mi si contesterà che la realtà sotto ai nostri occhi ci confondeva ed è per questo che non riuscivamo a scorgere la verità sugli Etruschi. Ma Dante ci aveva avvisato per tempo: il Poeta diceva di stare attenti perché spesso nelle scritture la verità si nasconde sotto una bella menzogna (Convivio II,1,3-4) e forse Winckelmann, che aveva studiato teologia ad Halle, avrebbe dovuto saperlo.

Giustamente gli archeologi rintracciavano nell’arte etrusca delle influenze greche, che a loro volta esprimevano tratti orientali elegantemente rielaborati dagli stessi Greci. D’altronde anche l’arte greca arcaica non si può definire come un fenomeno locale e unitario, ma al contrario testimonia un processo di fusione tra più centri propulsori custodi di tendenze artistico-culturali specifiche, diverse tra loro. Improprio è stato, semmai, elevare a unica essenza dell’arte l’imitazione del bello, in cui i Greci del V secolo a.C. avevano dimostrato di non avere rivali. Viene da sé che di fronte a ogni opera ritrovata in terra etrusca dopo il V secolo a.C. (perché l’arte, strettamente connessa all’uomo, così come era esistita prima, è proseguita anche dopo il V secolo a.C. con buona pace di tutti quelli che non la pensano così) gli archeologi si interrogassero su quanto l’arte etrusca dipendesse da quella greca. Che poi, detto tra noi, è un interrogativo che lascia il tempo che trova, in quanto è piuttosto evidente che l’arte vada avanti soprattutto per imitazione. Sono certo che se potessi discutere la questione con Picasso o con Banksy riceverei sempre la stessa risposta: “I buoni o cattivi artisti copiano, i grandi rubano”. E gli Etruschi erano proprio dei grandi artisti perché, da altrettanto grandi commercianti quali erano, sapevano rubare. Hanno rubato moltissimo dai Greci ma senza togliergli nulla; l’esatto contrario di quello che hanno fatto i Romani, solo per fare un esempio.

Durante il corso dei miei studi ho sempre fatto un po’ fatica a stabilire con precisione la posizione nello scenario mondiale della Grecia nel corso dei secoli e ancora oggi non si capisce bene in che modo vada collocata: quando fa comodo è Occidente, altre volte è Oriente, eppure lei è sempre lì e non si è mai mossa.

Ultimamente sento spesso parlare di “radici” e vedo tantissima gente che si affanna di continuo nella ricerca delle proprie radici: politici, intellettuali, guide spirituali, religiosi, devoti, scienziati, professori, studenti, idraulici, fornai, artigiani, impiegati, giornalisti… sembrano essere costantemente impegnati in questa ricerca senza sosta. Praticamente tutti gli esseri viventi sono in cerca delle proprie radici; tutti tranne gli alberi che se ne stanno fermi, saggi e tranquilli, perché comodamente piantati sulle radici. E forse un tempo anche gli Etruschi erano saggi e tranquilli come gli alberi. Questi signori dopo aver familiarizzato con l’arte greco-orientale l’hanno sapientemente miscelata alla genialità creativa sparsa nella penisola italica, utilizzando i propri gusti artistici, connessi a fattori socio-culturali ben precisi, per unire tutti gli ingredienti. I risultati sono ancora una volta sotto gli occhi di tutti.

 

L’articolo su Laris lo scriverò (forse) più avanti, quando i tempi saranno maturi. Considerato che i lavori di studio sono tutt’ora in corso e i primi risultati, seppur scientificamente validi, restano pur sempre provvisori e non definitivi.

Inoltre, quando nella premessa dico che sono andato a Città della Pieve perché c’era un “ospite d’eccezione”, cioè Laris, dico una piccola bugia: in realtà quel che resta del povero Laris si trova all’Università di Pavia per essere studiato e confrontato con altri DNA etruschi.

 

Qualche scatto della conferenza e dei ritrovamenti:

 

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