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di Luca Mikolajczak 

Dio è morto.

Tre sole parole per una insostenibile sentenza, cavalcata poi in strofe militanti e battute brillanti pronunciate da chi sbigottiva quando si accorgeva di navigare senza faro.
Tre sole parole sufficienti a ferire: così Nietzsche stigmatizzava l’appartenenza ad un secolo non più capace di volgere gli occhi verso il cielo perché ossessivamente chinato a terra.
Tre sole parole destinate a diventare un motto, fieramente proclamato da quanti accettano l’immanenza come unico orizzonte di vita.
Dalla morte all’oblio e quindi al rinnegamento il passo è breve. Una damnatio feroce che non risparmia nemmeno Dio.
La soluzione più facile è non interrogarsi, crogiolarsi nell’effimero fin quando c’è un diversivo per esorcizzare la paura, galleggiare in superficie per non affogare prematuramente.
Il nichilismo avrebbe raccolto proseliti nei salotti alla moda come nelle periferie scalcinate, diventando la religione universale dei senza religione.
Eppure il categorico rifiuto di un dio è presto vanificato: da un furtivo quanto incosciente segno della croce, da una bestemmia beffarda, da un dubbio che diventa crisi, dall’incontro con qualcuno con il sorriso perennemente e inspiegabilmente stampato sul volto… il confronto con ciò che ci trascende è una tappa obbligata nel cammino bistrattato dell’uomo che ama, sbatte la testa, non capisce, ritorna indietro; dell’uomo che cerca il bello anche nell’irrimediabilmente brutto, dentro di sé trema ma davanti ostenta un sorriso che è una muta dichiarazione di non resa; dell’uomo che è stanco ma non rinuncia alla speranza di stupirsi ancora una volta e come niente fosse ricominciare.
Allora voglio capire cosa significa oggi, oggi che sembra non si possa credere in niente se non in ciò che si vuole essere, vivere la propria religione. Con tutti i crismi, le idiosincrasie e le reticenze che non ci accorgiamo di custodire.

Che sia la religione di moltissimi, di molti, di pochi o di nessuno.
Che sia la religione dei padri o dei figli.
Che sia la religione solo delle feste o di ogni santo giorno.
Che sia la religione da poco ritrovata o appena ripudiata.
Che sia la religione delle funzioni per tutti o delle preghiere solitarie.

Perché tutti abbiamo bisogno della nostra ora di religione, ma forse non lo sappiamo ancora, o forse ci hanno fatto odiare e travisare questa benedetta religione.
Terreno d’indagine sarà l’Umbria, attraverso le parole né di santi né di diavoli, ma solo di uomini che cercano la casa del padre, perché è lì che dobbiamo tornare.

Fiorenzo, tutte le sere, intorno all’ora del crepuscolo, si metteva al davanzale della finestra in attesa di uno spettacolo quotidiano ma mai uguale a se stesso: i fari bagnavano di diverse carature di oro le guglie del Duomo, trasformandole in ciondoli che illuminavano il seno di Milano e scaldavano il cuore dei suoi abitanti.

Fiorenzo trovava in quel frangente il suo attimo di pace. Presto, tornavano il caos e l’inquietudine a scuotere la mente e lo stomaco.

Erano anni bui, in cui la ricerca di sé strideva con l’urgenza di entrare nella macchina spersonalizzante del lavoro. Nasceva allora il paradosso che avrebbe stordito future generazioni: per essere qualcuno bisognava annullarsi dentro le mura di un ufficio più o meno prestigioso. Avere ma non essere.

L’alienazione conduceva qualche volta dentro il tunnel psichedelico del proibito, dell’eccesso, dello sballo ostentato.

Non era il caso di Fiorenzo, che non sapeva quello che voleva ma sapeva quello che non voleva. Abbandonato il posto in banca, con sommo disappunto paterno, passava insofferente dai fumosi circoli comunisti della sua città ai club più in voga dell’Inghilterra, tappa forzata di un giovane confuso allora come oggi.

La mente forse non era più piena di pensieri, ma la tasche erano inequivocabilmente vuote.

Fiorenzo tornò a Milano, deciso a rimboccarsi le maniche con un bar. Aveva da poco smaltito le bottiglie dell’apertura, quando il destino (o chi per lui?) gli assestò il primo duro colpo. Non era sempre facile il rapporto col padre, ma perderlo così gli fece capire quanto lo amava.

Quando Fiorenzo vide andarsene anche la madre tra atroci sofferenze, la domanda che covava da tempo si trasformò in grido e il grido in bestemmia: “Perché Dio? Perché? Perché Dio?”.

L’olocausto dei rosari e delle Madonne non recò sollievo, aggiunse solo altro dolore al già tanto dolore.

Andò a una festa. Erano anni che non si svagava, non provava a sorridere, a essere leggero.

Non era la festa che si aspettava: si leggeva la Bibbia. Decise di rimanere grazie a Dostoevskij, letto per caso (o forse no) nella biblioteca sparuta di un paese dell’Umbria, dove era arrivato eseguendo una volontà paterna. Proprio Dostoevskij, con le sue storie dure, fin troppo umane, gli aveva dato un senso alla sofferenza nella speranza, riappacificandolo con Dio. Il giorno dopo la festa, Fiorenzo comprò la sua Bibbia.

Fiorenzo è un fiume in piena. Si interessa della storia di giovani folli anarchici, ma non riesce a trattenere la sua storia, felice di adempiere a una missione, che lo porta a predicare in chiesa come per strada, diffondendo la parola di Dio ad avventori non sempre ben disposti.

Se ne va, lo aspettano a casa la moglie e i due figli, ma non senza aver prima gettato uno sguardo di sincera ammirazione alla punta della chiesa di Sant’Ercolano, splendente nella sera tiepida.

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