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di Giulia Cipriani

12 dicembre 1969. In una Milano illuminata dal sole calante del pomeriggio e dalle luci colorate del Natale imminente, un altro colore prende il sopravvento, così in un attimo. Rosso. Rosso sangue. Sangue innocente. Da lì si inizia a tracciare un filo che prende sempre più le parvenze di un rivolo color porpora, che lentamente scende nelle coscienze, attraversa le anime, e lì si ferma, stantio, scuro, aggrumandosi con le nostre peggiori paure. Porta terrore, odio, un’incapacità crescente di capire. Dolore, tristezza e poi inesorabilmente, indifferenza.

L’altro non sono più io. L’altro non è più uno come tanti, uno come me. Gli altri, gli sconosciuti, i vicini di posto sull’autobus, su un treno o in fila allo sportello di una banca, diventano potenziali assassini. Persone da cui guardarsi, da analizzare nei movimenti. Persone di cui non fidarsi più.

Chi quel pomeriggio di dicembre si trovava nella “rotonda” della Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, ignorava totalmente tutto ciò, e soprattutto quello che da li a poco sarebbe accaduto. C’erano molte persone quel pomeriggio nella banca. Molti clienti in coda agli sportelli, ma soprattutto mediatori ed agricoltori lì in quel salone, chi portando avanti trattative con i propri clienti, chi in attesa. Ognuno cercava di prendere posto al tavolo centrale, di forma ottagonale dove avvenivano le trattative. In un clima caotico, in maniera frettolosa, dato che si avvicinava l’orario di chiusura della banca.

Molto probabilmente qualche cliente si sarà accorto di quella borsa, in pelle nera, elegante, lasciata incustodita accanto ad una gamba del grande tavolo centrale; forse, per un attimo, passando lo sguardo veloce in cerca di un mediatore, qualcuno, frettolosamente, l’ha notata, ma senza soffermarsi troppo, passando oltre. Le preoccupazioni erano ben altre in quel momento, ed una borsa dimenticata da qualche sbadato che andava di fretta non era tra quelle. Quindi perché preoccuparsi?

Quel 12 dicembre, alle 16:37 , forse qualcuno pensava a questo, forse altri pensavano solo a concludere velocemente per tornare a casa o fare altre commissioni, oppure, perché no, ad iniziare a vedere qualche regalo di Natale per figli e nipoti. Chi era intorno a quel tavolo non ha avuto probabilmente nemmeno modo di rendersi conto di quello che è successo. Che non sarebbe più tornato a casa, che non avrebbe più rivisto la sua famiglia.

Il lampo, il boato dell’esplosione , la terra che trema, sembra un terremoto. Il buio. Tra il fumo e la polvere si alzano i primi lamenti, poi le urla strazianti di chi, almeno per il momento, è cosciente. Di chi ha solo il tempo di chiedersi cosa sia successo, senza tuttavia potersi dare una risposta. È l’inferno? Forse peggio. Un inferno dove si espiano colpe non nostre, non negli inferi, lontano dagli occhi, lontano dalle coscienze, ma qui, sulla terra di tutti, dove tutti camminiamo, ma da allora, ed oggi ancora, circondati da tenebre di paura e parole mai dette. Morire in Piazza Fontana con l’unica colpa di trovarsi lì.

Dopo un eterno scorrere di attimi di terrore, i primi soccorsi. E le prime ipotesi. Immediatamente si grida alla disgrazia: un bombola che scoppia. Una fatalità. L’idea che potesse essere un atto terroristico non sfiorava la mente in quei minuti. Oppure non ci si voleva pensare. Perché mai colpire persone come loro, persone comuni, degli innocenti?
Purtroppo era questa la terribile verità; l’unica appurata di quel giorno. Lo scopo era unicamente quello di seminare terrore indistinto. Loro o altri, non aveva importanza. Vittime sacrificali per diffondere il terrore puro, quello più nero, il più denso di odio che si possa immaginare tra chi, per fortuite circostanze, rimaneva vivo.
[b]Ma quello di piazza Fontana[/b] non fu che il primo atto di una serie di stragi, di morti ammazzati, di vite spezzate e famiglie distrutte. Il terrore creato andava mantenuto. Da quel giorno in poi, gli anni che verranno in seguito saranno scanditi da stragi. Da quella di Gioia Tauro, nel 1970, che fece 6 morti e 50 feriti; quella di Petano di Sagrado, nel 1972, 3 morti; quella della questura di Milano,nel 1973, 4 morti e 45 feriti; la strage in piazza della Loggia, a Brescia, nel 1974, che fece 8 morti e 103 feriti; dalla strage del treno Italicus, sempre nel 1974, che fece 12 morti e 44 feriti; fino alla strage nella stazione di Bologna, nel 1980, che fece 85 morti.

Ognuna di queste date porta al suo interno i nomi delle vittime, i quali sono scolpiti a loro volta sul muro marmoreo della storia.
Ognuna di loro, uomini, donne, bambini, ognuna di queste vite spezzate è stata sacrificata da chissà quale perverso progettista, per il raggiungimento del terrore, della divisione, dell’indifferenza dell’uno verso l’altro, per alimentare e farci spofondare nella paura. Per far scivolare noi tutti in un vortice buio, asfissiante, senza fine.

E così, mentre in Italia iniziava uno dei periodi più oscuri della nostra storia, sia per l’enorme quantità di uccisioni, sia per gli effettivi punti indecifrabili ancora oggi di quelle vicende, nel mondo si alzava una ventata di solidarietà, confluita in un progetto musicale voluto dal Wwf, in cui numerosi artisti internazioneli davano il proprio contributo per mandare un messaggio per la salvaguardia del mondo. I Beatles contribuirono con Across the universe e chissà se in qualche parte del mondo, qualcuno, sopra la voce dei fab four, intonava quelle note, cantando “nothing’s gonna change my world” ossia ” nulla può cambiare il mio mondo” , nel giorno in cui in Italia, negli italiani, tutto era cambiato, profondamente, ed in maniera irreversibile.

Nulla sarebbe mai più stato come prima di quel freddo 12 dicembre 1969.

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