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di Pancrazio Anfuso

Un anno fa moriva David Bowie.
Ancora non si è spenta l’eco delle lagrime social: negli ultimi giorni c’è stata una certa recrudescenza di requiescat, perché sarebbe ricorso quest’anno il settantesimo anniversario della sua nascita.
Mick Jagger quest’anno ne compie addirittura 74. Mario Monti anche, e qualcuno in giro su internet commentava: poi dicono che le droghe fanno male.

Un anno fa David Bowie moriva e apriva la processione impressionante delle popstar che non sono sopravvissute al 2016. Succede, è gente non più di primo pelo e le droghe, checché se ne dica per scherzo, fanno proprio male. E non solo quelle.

Un anno fa moriva David Bowie e si portava via il segreto del suo talento. Paolo Sorrentino diceva ieri sera che il talento è un universo poetico che abita dentro di noi. Bisogna lavorare tutta la vita per portarlo alla luce.

Il talento di David Bowie zampillava come un giacimento petrolifero texano, ed era infinito e poliedrico. Originale e perciò innovatore. Talmente enorme da mettere a repentaglio, a un certo punto, la sanità mentale dell’artista.

Era successo a Syd Barrett, rapito dal suo genio espansivo fino a sottrarsi alla realtà, partendo per un viaggio senza ritorno nei meandri scintillanti e terribili della malattia mentale. Poteva succedere a Bowie, che più volte si è spinto oltre il limite, mischiando il consumo eccessivo di sostanze stupefacenti con la pressione enorme del successo.

Ma Bowie era forte. Nessuno ha mai dato peso più di tanto alle sue mattane nazistoidi, agli insaziabili appetiti sessuali e alla mania eccentrica dell’esoterismo. Questi erano i suoi vizi, più o meno nascosti, sicuramente temporanei e legati a fasi complicate della sua esistenza.

Quello che di Bowie abbiamo visto e assorbito era soprattutto l’enorme energia creativa. Originale, dicevamo. In grado di innovare partendo da elementi che lui sapeva trasformare, da grande mago/alchimista, trasformando in oro la materia grezza che rimasticava.
Che fosse il folk o la musica nera, il rock’n roll, il surf, il kraut rock, la disco o qualunque altra diavoleria, suonando il sax, le tastiere o la chitarra, Bowie spostava i confini più in là a ogni disco.

Ma non era solo una questione di musica. C’era dell’altro: bastava guardarlo muoversi, filiforme, dentro i travestimenti che si disegnava addosso, trasformandosi nelle creature che inventava, attingendo dall’universo poetico di cui sopra e dai fantasmi che lo rincorrevano.
Che poi, in fondo, è la stessa cosa.

Ziggy Stardust e il Duca Bianco erano i suoi eteronimi. Emanazioni della sua personalità che avevano vissuto di vita propria, prima che l’artista li sopprimesse. Intersezioni tra la carriera cinematografica e quella di rockstar, frutto di una presenza scenica debordante, forgiata alla scuola di Lindsay Kemp e affinata, nel tempo, con la frequentazione di altri artisti importanti.

Bowie proteggeva gli artisti che amava. Pagò il suo debito ai Velvet Underground e agli Stooges risollevando la carriera di Lou Reed e ricostruendo da zero quella di Iggy Pop. Sapeva di essere inimitabile ma condivideva il suo talento. Il periodo berlinese gli restituì alla lunga la lucidità e ne migliorò lo stato di salute, consegnandolo al successo planetario un po’ patinato degli anni ’80.

Quando ho saputo della sua morte non ho avuto reazioni. Ero appena entrato in macchina, avevo acceso il motore e la radio e un notiziario mattutino confermava la notizia della morte, in modo scarno. Leggevo i commenti sul web e mi pareva che nessuno fosse adeguato a raccontare la reale portata di Bowie. Mi sembravano discorsi tirati via, informazioni raccattate alla meglio, senza affondare il morso nelle carni, senza far fluire il dolore di una perdita così grande per il mondo della musica e di una certa cultura. Non per una questione di divismo, per me Bowie non è mai stato un’icona da appendere al muro. Era una passione lucida, intelligente. Un apprezzamento, una condivisione. Un attestato di stima.

David era cervello, stile, arte, immagine, parola, suono, corpo in movimento. Era come Lou Reed, complementare a lui, era la parte sfolgorante di quell’universo cupo, ringhiante pretenziosa albagia.
Bowie era una porta verso la diversità. Che fosse il punto d’imbocco di una strada dove si scoprivano le proprie inclinazioni sessuali oppure, più semplicemente, i propri gusti musicali, il risultato non cambia.

Ci ha mostrato che questo poteva accadere con quello che si ascoltava, con i concerti che si andavano a vedere, e poi con i libri, i film, il teatro, l’arte, la bellezza. Forse David era, come lo dipinge qualcuno, soltanto un narcisista, una specie di vampiro capace di rimasticare l’ispirazione che gli fornivano i compagni d’avventura ricchissimi di talento di cui sapeva contornarsi. Ma da questo racconto è sempre venuto fuori dipinto come un benefattore dell’arte e del talento altrui. E forse è questo il lato della sua immagine pubblica che più mi piace.

Imprevedibile, mai uguale a se stesso, capace di spostare il confine con un guizzo inaspettato. Come quello di morire all’improvviso, dopo una vampa creativa che non ci si aspettava più e che ne ha ribadito, oltre all’infinita originalità, anche la serietà d’artista che ha trovato il modo di dedicare gli ultimi mesi di vita a costituire un testamento artistico all’altezza di una carriera eccezionale. Senza lasciarsi morire.
Continuando a dire, fino alla fine.

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