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di Antonio Brizioli

 

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Mentre in Italia si celebrava la Festa dei Lavoratori del 1 maggio con il solito cocktail di deprimente retorica, da oltralpe giungeva una notizia in grado di riaccendere le speranze di chiunque ambisca ad un mondo in cui la libertà sia qualcosa in più di uno slogan.

A Zurigo, città che evidentemente ha un rapporto privilegiato con l’innovazione giacché fu nel 1918 culla di Dada, centinaia di robot hanno manifestato per il reddito di base. Non di cittadinanza, ma di base, ovvero un reddito minimo destinato a tutti coloro che risiedono in Svizzera, a prescindere dalla cittadinanza e dalla nazionalità, senza tener conto di alcuna differenza patrimoniale o sociale. Infatti il prossimo 5 giugno, i cittadini della Confederazione saranno chiamati al voto in un referendum che ha l’obiettivo di portare ad una legge che garantisca a tutti i maggiorenni svizzeri un assegno mensile di 2500 franchi (quasi 2.300 euro) e un assegno di 500 franchi mensili a tutti i minorenni, fin dalla nascita. La cosa ha il sapore di un’autentica rivoluzione, dal momento che renderebbe il lavoro una scelta volontaria, slegata dalla necessità di sopravvivenza e volta soltanto a seguire le proprie vocazioni e/o migliorare la propria condizione con un surplus economico.

Questo referendum, oltre a poter fare della Svizzera un esempio virtuoso per tutti gli altri paesi del mondo, rilancia una battaglia fondamentale dei movimenti d’avanguardia artistica e politica che hanno attraversato il secolo scorso e che inspiegabilmente è stata negli ultimi anni accantonata (per lo meno in Italia) anche dalle sinistre più radicali. Quest’ultime continuano a parlare di “diritto al lavoro”, di “necessità di occupazione”, di “necessità di creare impiego” e mai di abolizione del lavoro. In Italia effettivamente, gli unici ad aver ad oggi concretamente avanzato la proposta di un reddito di cittadinanza (che come spiegato sopra è un concetto comunque più restrittivo rispetto al reddito di base) sono gli esponenti del Movimento Cinque Stelle, accolti con sconcertante freddezza da tutte le forze politiche italiane e dalla maggior parte dell’opinione pubblica del paese.

Ciò è molto strano perché la battaglia per l’abolizione del lavoro attraversa la storia contemporanea. Fu lanciata dallo stesso Marx, che aveva ipotizzato il superamento del capitalismo e del lavoro salariato attraverso lo sviluppo del ruolo del sapere e della scienza, che avrebbe fornito all’uomo un sistema di macchine semi-automatizzate. E dobbiamo pure tener presente che tutte le esaltazioni che le avanguardie artistiche del primo novecento hanno speso in favore del progresso, vanno intese proprio in chiave di liberazione dell’uomo: dalle celebrazioni futuriste della macchina, alle sperimentazioni tecnologiche del costruttivismo russo, al rifiuto del lavoro di quel Dada che proprio a Zurigo vide i natali nel 1918 come un movimento antiautoritario di ripensamento radicale della società.

Fu a Berlino tuttavia che Dada, animato da interpreti che raccolsero il messaggio del fondatore Tristan Tzara e lo radicalizzarono in relazione alle emergenze politiche della Germania del tempo, teorizzò esplicitamente l’abolizione del lavoro. Nel manifesto Cos’è il dadaismo e cosa vuole in Germania, firmato nel 1919 da Raoul Hausmann, Richard Huelsenbeck e Jefim Golyscheff si chiede “l’istituzione della disoccupazione progressiva per mezzo della meccanizzazione di ogni attività”, poiché “solo con la disoccupazione l’individuo ha la possibilità di rendersi conto della realtà della vita e di abituarsi finalmente a vivere”.

Ma potremmo parlare ad esempio delle mobilitazioni parigine del Maggio 68, quando sui muri della capitale francese campeggiava su tutti lo slogan situazionista “Ne travaillez jamais”, che come anche i meno francofoni di voi avranno capito significa “Non lavorate mai”.

L’unica critica radicale alla società di cui facciamo parte è una critica del lavoro. Una critica che deve tener conto del fatto che malgrado ci sia stata presentata come naturale l’idea che l’uomo sia nato per lavorare, al punto che Adriano Celentano si sia sentito in dovere di ammonirci nel 1968 con un inquietante “Chi non lavora non fa l’amore”, in realtà non c’è niente di connaturato all’uomo nell’idea del lavoro, per lo meno nell’idea del lavoro come mezzo di legittimazione sociale attraverso il sacrificio. Lo dimostrano ad esempio i 370 milioni di indigeni che, fra mille difficoltà, tuttora abitano varie zone di tutti i continenti del nostro pianeta con un’idea di lavoro legata unicamente al procacciarsi il necessario a vivere e subordinata alle attività di gioco, riposo e svago.

Ma non voglio addentrarmi nella diatriba sulla concezione etica o filosofica del lavoro, cui abbiamo dedicato e dedicheremo altri interventi. Il fatto è che nel tempo trascorso tra noi e Marx, o se si preferisce fra la Zurigo del 1918 e quella del 1 maggio 2016, la società non solo si è meccanizzata, ma si è improvvisamente digitalizzata e in tal modo ha risolto tantissimi problemi legati alla forza lavoro. In un bell’articolo del “Manifesto” sui fatti di Zurigo si fa ad esempio menzione di come nel 2010 Instagram abbia prodotto e sviluppato con 15 lavoratori dipendenti un’applicazione utilizzata da 130 milioni di utenti. La digitalizzazione del lavoro è sicuramente uno dei fattori di disoccupazione, seppur non l’unico e probabilmente neanche il principale. Però rappresenta un’occasione.

In Italia la disoccupazione giovanile ha recentemente toccato il 40% della popolazione under 25, il 19% di quella under 35, numeri che impediscono di essere positivi se si ragiona nell’ottica del lavoro. La fuga dei cervelli contribuisce a salvare qualcuno più coraggioso o geniale di altri, ma non ammorbidisce minimamente statistiche così eloquenti. Il tasso di disoccupazione non pare destinato a decrescere in maniera risolutiva e il lavoro giovanile continua a muoversi nel vorticoso mondo dei voucher, degli stage, dei contratti a tempo determinato e delle partite Iva.

In uno scenario di questo tipo i giovani legittimamente manifestano, chiedono occupazione, chiedono impiego, chiedono di poter versare contributi per una pensione che lo stesso presidente dell’INPS Tito Boeri ha chiarito pochi giorni fa non gli sarà data prima dei 75 anni, in sostanza chiedono a gran voce di entrare negli ingranaggi di un sistema che, evidentemente, non è stato costruito per accontentarli.

E così una domanda sorge spontanea.

Non sarebbe forse più semplice liberare dal fardello dal lavoro la metà di giovani occupata piuttosto che generare lavoro per la metà disoccupata?

Il terreno è fertile oggi, in Italia e non solo, per rilanciare la secolare battaglia per l’abolizione del lavoro.

 

Alcune immagini della manifestazione del 30 aprile a Zurigo

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