di Luca Mikolajczak
“Aldo Capitini – filosofo della non violenza” pronuncia in modo stentato una coppia di turisti anglosassoni che soprannomino subito “cliché ambulante” per l’armamentario antiestetico di cui è munita: bermuda kaki per entrambi, sandali a fascia, zaini arancio fluo e immancabile borraccia. Ma alla disapprovazione sconsolata lampante nel mio sguardo, subentra presto il plauso per la curiositas che si concretizza nell’immediata ricerca sullo smartphone di informazioni sull’ignoto personaggio che troneggia i Giardini Carducci.
Neanche il tempo di mirare interminati spazi che un’altra coppia di turisti, questa volta italioti lampadati e trendy, si accosta a me: dopo aver dissolto il dubbio sull’identità del bistrattato perugino con un sonoro “boh” accompagnato da una icastica scrollata di spalle, i due non esitano a coinvolgere l’austera effigie nei loro selfie ridanciani.
Forse i nostri antieroi non avrebbero osato tanto, se avessero avuto una benché minima idea della grandezza morale di colui che con superficialità andavano a svilire.
Inidoneo nel corpo e nel cuore al servizio militare, Aldo Capitini è stato un fiero paladino della libertà e delle giustizia in un’epoca in cui sfilavano fasci, non modelli, e si beveva ricino al posto dell’Aperol.
Celebrato a pochi metri da dove ebbe inizio la famigerata marcia su Roma, il suo volto è un monito grave contro tutti i fascismi, non solo quelli gridati, ma anche e soprattutto contro quelli sottesi, coperti da un illusorio scintillante abito democratico.
La sua ferrea avversione ad ogni forma di inquadramento l’ha tenuto escluso dalla scelta dell’arredamento della Repubblica che lui stesso ha costruito con i mattoni della laicità e della tolleranza.
Invece di adagiarsi su qualche scranno romano, preferiva del resto marciare fino ad Assisi sventolando una bandiera arcobaleno destinata a divenire un vessillo mondiale della non violenza, intesa non come inerte accettazione dei mali esistenti, ma attiva rivendicazione dei diritti umani.
Capitini era solito definirsi post-cristiano, ma in realtà era il primo assertore della necessità di un’imitazione di Cristo, capace di insegnare dove può giungere una coscienza religiosa: “fu anche lui, come tutti, un essere con certi limiti; ma d’altra parte fu in lui, come in ogni altro essere, la qualità della coscienza che va oltre i limiti, che è in lui come in un mendicante”. Ma si potrebbe parlare ugualmente di imitazione del Buddha, di Francesco d’Assisi, di Gandhi, in nome di una comune apertura dell’uomo verso l’alto.
Pedagogo della pace e della fratellanza, predicava in tempi non sospetti il vegetarianesimo come corollario del rispetto panìco della natura e di tutti i suoi figli.
Il rischio dell’incomprensione e dell’emarginazione è sempre in agguato quando si va controcorrente e Aldo Capitini forse ha ecceduto nella sua indomita e stravagante marcia.
Pietro Longo lo ricorda isolato, reietto viandante e la damnatio memoriae cui ho assistito seduto su una rovente panchina è a dir poco emblematica della chiusura cieca e becera che il nostro concittadino sensibile ha predetto con amara lucidità.
Lui che biasimava la “civiltà pompeiana-americana”, la mentalità materialistica basata sull’apparire e vi contrapponeva la dimensione intimistica del raccoglimento spirituale, probabilmente avrebbe negato il selfie.