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Quando prendete tra le mani American Chordata, è facile accorgersi che non state per leggere una rivista, ma visitare un museo. E per godere appieno dell’esperienza bisogna porsi nella stessa maniera: cercare e fare attenzione a ogni dettaglio, sapendo che è stato messo lì per un motivo preciso, per farti sentire qualcosa.

American Chordata è una rivista statunitense, in cui lavora una manciata di gente tutta elencata nella prima pagina. Nella prima pagina c’è anche la loro missione: promuovere l’arte, sia scritta che visuale. Viene pubblicata solo due volte l’anno: in inverno e in estate, ed è facile capire perché, guardando il numero delle pagine e la finezza che va nella creazione dell’intera edizione, compresa la qualità della carta su cui viene stampata.

L’elenco dei contributori consiste in una piccola biografia scritta da loro stessi. Che tu abbia contribuito con una foto o con un intero articolo, ti viene riservato lo stesso spazio d’introduzione; sarà poi il tuo lavoro a farti conoscere davvero. La maggior parte degli autori sono esordienti o poco conosciuti, quindi l’introduzione è più che utile per farci un’idea del loro background. Dopo una piccola nota di cui parleremo a breve, gli editori si eclissano, lasciandoci immergere completamente nell’esperienza narrativa e visuale. Ma non è come fare un tuffo nell’acqua fredda, perché ci avevano già preparato, piano piano, dandoci assaggi di fotografie e opere d’arte già dall’inizio.

Nella nota si discutono alcune scelte di editing fatte in questa edizione, che consiglio di leggere a tutti gli appassionati di linguistica. Si parla di come si voglia dare un carattere internazionale alla rivista, senza dare priorità alla cultura americana, ma accogliendo qualsiasi nome proprio, festività, religione, come se la si conoscesse da sempre.

Il che ci porta a una questione essenziale: American Chordata è interamente in inglese, dalla prima all’ultima pagina. Mi chiederete: è leggibile per qualcuno che non sia americano? La mia risposta è: dipende. Per qualcuno che sia fluente, ovviamente sì, anche se alcuni racconti – uno in particolare, che analizzeremo meglio dopo – sono totalmente impregnati di cultura americana, e alcuni riferimenti vanno inevitabilmente persi. A qualcuno che con l’inglese se la cavicchia, lo consiglio comunque: il linguaggio preferito dei “chordates” è semplice e diretto, facilmente masticabile da chiunque, e in ogni caso la parola scritta è solo una parte dell’intero volume.

Si parte subito con una poesia di Christopher Phelps, poi un racconto di Alana Trumpy, Compline. Queste quattro pagine di racconto, dedicato a quanto sia stancante provare compassione per lavoro, si leggono in pochi minuti e rimangono in testa per un’intera giornata. Poi, le due poesie di Yuxi Lin, meravigliosamente completate dalle immagini associate a ognuna – e anche da qui si nota il lavoro di selezione in ogni piccolo particolare, che proseguirà per l’intero volume.

Il racconto di Rémy Ngamije, From the Lost City of Hurtlantis to the Streets of Helldorado (or, Franco), è stato il più difficile da leggere, a causa del registro estremamente colloquiale e legato allo slang afro-americano degli Stati Uniti. Ne è valsa la pena, però. Franco ha perso l’amore della sua vita e il suo dolore viene visto attraverso gli occhi del suo migliore amico, che sopporta, tace quando deve e ogni tanto dice qualche parola di troppo, nel disperato tentativo di aiutare. Eppure la cosa particolare è che non c’è qualcuno che abbia solo ragione o solo torto; è una situazione derivata da sbagli da entrambe le parti, chi più e chi meno. È stato fin troppo facile rivedersi nei panni di entrambi i personaggi, soffrire con loro e per loro, e sentirsi come il protagonista, impotenti.

Altre due poesie: quella di Nat Myers, che racconta di un rituale sciamanico coreano, e quella di Zoe Contros Kearl, che invece parla di pellicce e gin tonic. Poi Muse-o-mine, il racconto di Anna Lidia Vega Serova, tradotto da Jennifer Shyue. Parla di una perdita anche questo, ma in modo diverso. La ferita ormai quasi cicatrizzata di un lutto accaduto anni fa, portata alla memoria della protagonista da uno spiacevole incontro al bar: la dolce Mimusa che vorrebbe leggerle la mano e non sa riconoscere i toni falsi, non sa di essere odiata, non riesce neanche a immaginare perché. Il perché noi lo sappiamo: la voce interiore della protagonista ci racconta la sua storia, in cui alla fine non vince nessuno.

I frammenti di Basie Allen arrivano come una frustata in mezzo alle scapole, incorniciati da alcune foto che aiutano a entrare nel mood delle poche parole di questa storia. Non una di troppo né una di meno.
Decoy Animals di Angela Woodward racconta di una storia mai scritta e di una donna che cambia e non lo riesce ad accettare; colpisce al cuore gli scrittori o aspiranti tali, e chiunque abbia mai avuto una passione che ora non ha più il tempo, la forza, l’ispirazione di continuare. Woodward alterna monologhi interiori a dialoghi che aiutano ad aumentare la sensazione di isolamento; e a contribuire al tono disarmante della vicenda, le fotografie di Tatu Gustafsson, simili tra loro ma incredibilmente mai ripetitive, sparse con arte attraverso l’intero racconto.

Il reportage fotografico di Ian Lewandowski introduce elementi di irrealtà nel mondo quotidiano e viceversa. Dal nome di “The Ice Palace is Gone”, non ancora terminata, la raccolta viene introdotta da una piccola presentazione, in cui Lewandowski dichiara la sua ricerca all’interno degli ambienti queer per il fantastico e per i piccoli gesti di generosità. Ciò che mi ha davvero catturato sono stati gli sguardi dei protagonisti, insieme ai loro gesti. Nella forzata immobilità dello scatto, c’è sempre qualcosa che ancora si muove, una mano a mezz’aria, uno sguardo non ancora finito, che mi dà la sensazione di avere un dialogo con quegli sconosciuti.

Prima dell’ultimo racconto, c’è la criptica poesia di Gnaomi Siemens e quella agrodolce di Sara Elkamel, entrambe teatro di immagini uniche, ma familiari. Poi facciamo la conoscenza di Jill, grazie alle parole di Patrick Clement James. Anche Jill parla di perdita, e in particolare di quello che rimane. Il giorno in cui Adam morì, Jill perse un figlio. Il protagonista perse un fratello, ma in un certo senso anche una madre, e un po’ anche se stesso; il suo profumo, i suoi sguardi, che somigliavano a quelli di Adam, e che non ha più riavuto indietro. Il racconto di James attraversa tutti gli stadi del lutto in modo non cronologico, raccontandoci nel frattempo la storia di una donna e della sua famiglia.

La raccolta si chiude con due poesie di Mitchell Glazier, discussioni sulla modernità. Nell’ultimissima pagina, bianca, in fondo c’è il simbolo di American Chordata: una mano con un dito spezzato, proprio dove dovrebbe esserci la fede.
Chiudo la rivista, esco dal museo, e per qualche motivo la copertina non ha più l’aria allegra di prima, ma ha una vena di malinconia. Sarà che per quanto possa rileggere queste pagine, non sarà mai come visitarle per la prima volta.

Per sfogliare e acquistare American Chordata #9: 

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