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di Antonio Brizioli

 

Ho numerosi punti di riferimento a livello culturale: nella poesia, nel cinema, nella lotta, nell’arte e alcuni in più di queste cose messe insieme. Provenienti da epoche che vanno dall’antica Grecia all’oggi, vissuti in città e paesi fra i più diversi, hanno tutti in comune una cosa: appartengono o sono appartenuti al proprio tempo.

L’appartenenza al proprio tempo (sia esso un tempo felice o tormentato, di pace o di guerra, di ricchezza o di povertà) non è certo una condizione sufficiente al buon esito di un’operazione artistica (o culturale in genere) ma indubbiamente è una condizione necessaria. Essa non esclude fughe in tempi lontani o immaginati, fantasie e invenzioni, ma prevede una conoscenza profonda del proprio contesto storico, della città in cui si opera, delle condizioni sociali e politiche di riferimento… Tutti elementi che sostengono qualunque creazione o idea dell’uomo del suo tempo, se non altro ad un livello inconsapevole.

In Italia la sensazione netta è che sia in atto una perdita di contemporaneità progressiva e preoccupante. Non ci si lasci ingannare dall’inflazionato utilizzo della parola “contemporaneo” (nell’arte ad esempio), perché l’aumentato utilizzo nasconde di fatto la perdita di cui si parla. Così come la perdita di senso storico coincide con un’apertura virale di musei, così come la diffusione della sessualità spettacolarizzata nasconde una perdita di contatto con quella reale… La contemporaneità in Italia è scritta in più punti ma quasi nessuno la sta determinando con la propria azione politica e culturale.

Nel cercare di individuare il perché di questo fenomeno, mi tocca di essere più banale del previsto: temo che quasi nessuno si renda più conto di cosa sia, la contemporaneità, quella sconosciuta.

In arte ad esempio, nessun insegnamento liceale, pochi di quelli universitari, si spingono ad affrontare il presente. Uso “affrontare” perché ovviamente, non essendo esso storicizzato, il presente non si può trattare. Ma non dimentichiamo che l’università è pur sempre il luogo deputato a fornire ai suoi studenti gli strumenti adeguati per fare i conti con la propria epoca. Così tuttora è nelle migliori università del mondo, che si muovono di conseguenza ad un contesto che cambia a marce forzate.

Così non è nel nostro paese, dove il legame col presente di qualunque istituzione è gravemente compromesso. E si arriva al paradosso di gente laureata in qualcosa che contiene “contemporaneo” nel nome (tipo “storia dell’arte contemporanea” ad esempio) riferendosi al passato. Li mandiamo a combattere con la fionda, in un mondo dove tutti usano il mitra.

La medesima sfasatura temporale si nota negli investimenti in ambito culturale. Lasciamo pure stare il fatto che nella quasi totalità dei casi i fondi per la cultura (che sono sempre meno, ma ci sono a ben vedere…) vengono investiti in maniera tutt’altro che meritocratica. Il punto è che anche laddove questi vengono investiti con razionalità, essi non mirano a pungolare un presente anestetizzato, ma rincarano la dose di anestetico: non creano dibattito, non creano fermento, non creano ricchezza, non creano cultura.

Penso alla città dove vivo, Perugia, nella quale anche recentemente sono state stanziate ingenti risorse in investimenti sulla contemporaneità e ciò è lodevole: peccato che la contemporaneità consista in mostre di correnti artistiche importantissime quanto trapassate. Si pensi ad esempio alla recente mostra della collezione Panza di Biumo: bellissimi capolavori di pop art, arte concettuale, arte ambientale eccetera, eccetera… Una mostra che ho apprezzato e visitato con piacere, ma l’avrei fatto con piacere ancor maggiore se quegli anni Sessanta, Settanta, Ottanta non fossero delle colonne d’Ercole oltre le quali nessuno osa spingersi. Ma potremmo parlare di Milano, dove pure gli spazi espositivi istituzionali, così come le gallerie, espongono gli stessi artisti che esponevano quarant’anni fa: allora stimolo pungente alla collettività, oggi – nel migliore dei casi – utile ripasso di storia dell’arte.

Se la contemporaneità è l’arte di 40, 70, 100 anni fa, allora si deve aggiungere un capitolo successivo. Chiamatelo “post-contemporaneità” o come ritenete ma prendete in considerazione chi lavora nelle città con azione quotidiana. E si veda bene che non si tratta qui di una critica specifica a chi amministra Perugia o Milano. Ovunque in Italia, ad eccezione di rari esempi di virtù, si consuma lo stesso identico dramma di disagio col proprio tempo.

In Italia stiamo togliendo spazio alla vita e questo è un fatto epocale. Le città sono fatte di fermenti che le percorrono giornalmente, di cuori che battono e carni che si sfiorano. La vita non può fare da contorno estetico alla celebrazione del culto dei morti, semmai deve essere il contrario… Il morto come esempio al vivo, il passato come lezione nel presente, ma un presente che ci deve appartenere e che abbiamo il dovere di costruire. Gli anni ottanta, settanta, sessanta, non sono contemporaneità, anche se sui manuali c’è scritto così: sono cose preziose quanto trascorse, storicizzate, attraversate, sulle quali è necessario continuare a dibattere, ma nella definizione di un presente che ci circonda.

Quando mi chiedono cosa sia l’arte contemporanea, do la mia risposta in modo semplice: è l’arte dei vivi.

Quei vivi ai quali oggi, in Italia, spettano 0 euro. Nella quasi totalità del paese, i vivi non vengono percepiti, se non nel tentativo di silenziarne i dibattiti. E ciò comporterà una lotta sempre più dura fra giovani e vecchi, come auspicato da dei grandi artisti morti, i futuristi, al cui tempo si viveva una medesima assenza di presente che poi sappiamo a cosa ha portato.

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