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di Antonio Cipriani

Questo testo, molto lungo, contiene una intervista con Leo de Berardinis del 1997. Avevo a casa i nastri, preziosa la voce, straordinari i concetti. Quando Claudio Meldolesi, Laura Mariani e Angela Malfitano mi hanno chiesto una testimonianza per un convegno su Leo e per un libro, ho ripreso questa intervista bellissima e ci ho lavorato un po’. La trovo, a distanza di tanti anni, profetica. Fa parte di un libro che è uscito di recente, intitolato “La terza vita di Leo” per Titivillus. Mi emoziona sempre rivederla. La dedico a Leo e a Claudio Meldolesi, che non ci sono più.

“Dicono che gli artisti dovrebbero essere più intellettuali…Io dico invece che gli artisti ridiventino artisti e non siano intellettuali. Perché intellettuale è chiunque usi l’intelletto; un falegname è un intellettuale che usa anche le mani, per esempio. Ma chi può dire che un intellettuale come attore sia più bravo di Scarpetta o di Totò? E Mozart? Era un intellettuale?”

L’intellettuale e l’arte, poi la critica e la visione del mondo: il platonico che procede con gravi ondeggiamenti e il poeta che vola come una saetta. Così partiva la mia unica e lunghissima intervista a Leo, il 14 maggio del 1997. Una intervista inedita, rimasta dieci anni nella penna di chi l’avrebbe voluta scrivere proprio per narrare la saetta del poeta in un’epoca di gravi ondeggiamenti, che niente però hanno a che fare con quelli di cui parlava Lukacs, quelli che “mettono in questione” ciò che vìola la comprensione e, scardinandone le regole, tende a costruirne esteticamente nuove.

Sui nastri scorre la sua voce; Leo che insegue le parole più giuste, o tace mentre si versa un bicchiere d’acqua. Era stato male. Preparava Santarcangelo, in quei giorni. Con un desiderio forte e profondo di azzerare tutto. Di fare il deserto e permettere all’arte di attraversarlo per rinascere di una nuova purezza. Di una nuova vita. Un frammento di questa chiacchierata divenne il testo usato per quel Santarcangelo dei Teatri che dichiarava questa necessità e mentre la dichiarava ne anticipava l’esigenza storica. Quell’esigenza storica che oggi si radica in ogni azione della vita e della società.

Io che domandavo, sulla critica, sull’arte scenica e il suo gioco delle tendenze, sull’ignoranza e sulla politica, solo adesso capisco che ero un testimone, che scriveva e registrava, di un’epoca che Leo tratteggiava senza paura, con il coraggio della sua vita, e vedeva con il suo sguardo profondo e prospettico.

Parliamo della critica, a un certo punto gli chiesi a bruciapelo. Un critico si trova davanti al talento artistico e lo osserva con l’occhio dell’intellettuale.

“La critica…” Silenzio. Rumori di fondo. Una sedia, il tintinnio di un bicchiere, un qualcosa poggiato sul tavolo.
“Un critico dovrebbe essere un poeta, invece critica il mondo”. Ancora silenzio. Quasi a lasciare sospesa quella frase così semplice. Che a uno viene in mente che il senso critico è una liberta e che il mondo sia così criticabile. Invece no. Il poeta parla del mondo come meraviglia e perfezione incomprensibile anche all’intelletto. Usa una categoria diversa.

“Il frutto che nasce su un albero è naturale. L’opera d’arte è come un frutto naturale, non è mai un processo artificiale. Così l’Infinito di Leopardi è come una mela generata da un albero. Sono la stessa cosa. Sia l’Infinito che un frutto sono mini-gnosi del mondo. Allora io dico che il critico, partendo da questo frutto potrebbe produrre un altro frutto, che è quello critico. Baudelaire era un critico, Nietzsche era un critico”.

Ma il problema della critica è proprio quello di muoversi, con difficoltà, in un mondo caotico e difficile come è quello dell’arte. Diventa quasi una legittima difesa contro l’imperscrutabilità della poesia alzare steccati interpretativi, creare tendenze, incanalare giudizi…

“Bisogna togliere tutte queste etichette, queste tendenze oppure queste confusioni. Hanno operato in questo periodo sui palcoscenici del mondo Pina Bausch e Nurejev. Dov’è la contrapposizione? A me interessa sia Nurejev che è un genio, sia Pina Baush che è un altro genio pur facendo cose apparentemente in contrapposizione. Apparentemente, perché facevano la stessa cosa: facevano danza, facevano teatro. Io posso arrivare a dire che Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che io ho avuto la fortuna di vedere a Roma a diciannove anni e loro cominciavano allora, possono essere rapportati a Nurejev più di certi sconsiderati che parlano di avanguardia e non sanno né parlare né muoversi. Il teatro non è parola, certo, abbiamo fatto una grande battaglia contro questo, ma non è neanche mutismo o handicap. Uno può anche non parlare. E Nurejev non parlava, si muoveva. Ma uno che nun se move, nun parla, nun fa… Allora non è teatro, è un’altra cosa. Può essere encomiabile, però non chiamiamolo teatro. Non posso chiamare teatro una bottiglia d’ acqua minerale, altrimenti non ci capiamo più. Oggi viene definito teatro chiunque faccia qualcosa; se è un qualcosa che non rientra nell’ abitudine, viene chiamato teatro d’avanguardia. Il problema è rappresentato dal saper stare in scena: Arturo Benedetti Michelangeli faceva teatro, non parlava, non si muoveva, non danzava, non faceva niente… suonava ‘u pianoforte assettat’. Era teatro perché creava un rapporto dal vivo con una comunità sul piano della bellezza”.

Poi il concetto di azzeramento, per salvare l’arte attorica, diceva Leo. Azzerare per ricominciare, con un occhio al teatro, pensando alla vita, alla società, alla politica, al gioco assurdo delle convenzioni e del potere nella gestione della polis, quindi di ciò che aiuta a stare insieme con diritto e giustizia.

“Bisogna azzerare tutto. E non fare niente, si potrebbe dire con un paradosso. Se poi le cose avvengono, che siano le benvenute, nessuno si oppone. Ma non aspettarci assolutamente niente. E fare, comunque. Per esempio la critica, come abbiamo detto, è da azzerare totalmente, l’ arte attorica, perché venga salvata, è da azzerare totalmente, la drammaturgia è da azzerare totalmente, il concetto di spettatore è da azzerare totalmente. Si tratta veramente di fare il deserto, e dal deserto può venire qualsiasi cosa. Se c’è chi sa innaffiare… Ma può anche venire il miraggio, così come ci hanno abituati, o può avvenire la morte in mancanza d’ altro. Si tratta, questo deserto, della condizione ideale per ripartire da capo, ma in modo molto più disincantato. Che significa però disincantato? Non vuol dire non avere più quella stessa propulsione attiva nella società, significa non aspettarsi automaticamente qualcosa. Un pensiero non meccanicistico, ma dinamico”.

L’ignoranza e la dotta ignoranza, l’intellettualismo e la cultura ignorante. In un gioco di rimandi, interessante e lucido, dal pregiudizio sotto ogni forma, alla paura dell’ignoto che segna questa epoca. Di questo volle parlare, quasi insistendo sul tema. Un percorso straordinariamente efficace, un assolo jazzistico.
“Ignoranza, che viene dal verbo ignoro, vuol dire – in positivo – io ignoro una cosa quindi cerco di capire. In teoria sarebbe un’apertura positiva. Qui, invece, si tratta di cultura ignorante che si mostra nei suoi vari aspetti. Per esempio: quelli che fischiavano Verdi alla prima della Traviata esprimevano un’ignoranza molto diversa da quelli che ancora oggi fischiano il “Pierrot lunaire” di Schoenberg. Perché allora, ai tempi della Traviata – che poi ebbe un trionfo clamoroso e immortale – era un non capirsi soprattutto per fattori sociali. Nella Traviata diventava eroina una prostituta, c’era un contorno che nulla aveva a che vedere con l’arte. Però, era un’ignoranza senza terrorismo culturale. Io dico che lo scandalo della Traviata, del non capire la Traviata, è diverso da quello del “Pierrot lunaire” di Schoenberg. Perché “Pierrot lunaire” rivoluzionava proprio il concetto dell’orecchio, dell’ascolto. E’ ovvio che passare dalla musica modale a quella tonale fu uno choc; per noi passare da una tonale a una modale è uno choc. Perché non siamo abituati dall’infanzia. Per esempio nei paesi arabi i quarti di tono sono normali, naturali, per noi il quarto di tono vuol dire stonatura di chi non prende il bemolle o il diesis. Noi siamo arrivati a confonderlo poi il bemolle con il diesis, eppure c’è una differenza notevole. E se ne accorge anche un violinista scadente. Suonando sa che nella scala discendente le posizioni delle dita sono differenti da quella ascendente. Ecco, in “Pierrot lunaire” non esiste più la tonalità come conclusione e riferimento semplice: la tonica, la dominante, la sottodominante poi i moduli verso un’altra tonalità… Là no: i dodici suoni hanno lo stesso valore, non c’è una gerarchia tra le note. Alcuni lo hanno letto in termini politici, altri in termini filosofici. Per questo il rifiuto a “Pierrot lunaire” è diverso dal rifiuto per la Traviata. Per la Traviata poi si è capito, era un fatto moralistico. Verdi era un genio e basta, poteva scrivere anche canzonette… “Pierrot lunaire” è, dalla prima al Carlo Felice di Genova a oggi, un caso aperto, irrisolto. E che cosa si è innestato in tutto ciò? Il terrorismo culturale, l’intellettualismo. Che ha trasformato l’ignoranza da fatto positivo a fatto negativo. Ma che intendo per ignoranza? Mancanza di pregiudizio. La cultura, quando non è cultura, è l’espressione del pregiudizio. Ma io non predico l’ignoranza, direi: la dotta ignoranza, che è un’altra storia. Allora che cosa ci vuole? Ci vuole il genio dell’attore, l’attore genio fa passare anche l’Ulisse di Joyce, è nato per questo. Ma non come interpretazione di Joyce o interpretazione di Shakespeare. L’attore è colui che sta là, “è”. Poi ha come supporto verbale, se ha bisogno di parole, Shakespeare, Pascoli, una barzelletta… Ma non è importante se è Shakespeare, Omero o altro. Ogni artista sceglie il medium che gli fa più comodo, il gesto, il suono, Leopardi. E’ l’attore che è il teatro, insieme con lo spettatore. Non si può bleffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile. Il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”.

Un turbinio: sento ancora il suono delle sue parole che si componevano e scomponevano ballando sul pentagramma della sua arte d’improvvisazione. Musicale e imprevedibile. Capace di variare tra Schoenberg e Ambra, che in quell’epoca – a dire la verità insieme a Fiorello – incarnava un parametro televisivo che Leo, tra una battuta e l’altra, riteneva ineludibile. Il teatro per chi fa televisione era qualcosa che si rifiutava di capire. Lui che avrebbe voluto davvero azzerare tutto per giungereal deserto-morte per la rinascita dello spirito del teatro.
Così gli chiesi: va azzerato anche il rapporto con le istituzioni?

“E’ necessario riprendere a tessere le fila del teatro con disincanto… Non bisogna forzare assolutamente le cose, ma bisogna opporsi a ciò che accade e che stravolge i nostri diritti…

Partito da posizioni di netta contrapposizione alle istituzioni, extraparlamentare, anarchico, dopo 40 anni circa mi ritrovo al punto di partenza: di nuovo a dover considerare impossibile il dialogo con le istituzioni. Come il saggio che si mette alla ricerca e dice: questa è una pietra, va bene, però voglio vedere che cos’è. Ci impiega un millennio a capire che cos’è: è una pietra. Ma adesso lo sa. Così adesso so – se le cose vanno avanti così – che l’arte teatrale di cui parlo io, il teatro, è incompatibile con le istituzioni. Anche con le più aperte possibili storicamente esistite finora, quelle che si sono autodefinite democratiche, ma che siccome fanno parte di un sistema chiuso che si autoperpetua e autocelebra non possono che essere rovesciate. Ma poi, però, è la storia che rovescia, non sono le intenzioni, non sono le volontà, sono le condizioni che permettono un rovesciamento. Io odio il dialogo con le istituzioni sul piano dell’arte, che non porta né un profitto, non porta voti, non porta la cosidetta economia spicciola, miope: perché per economia non si intende l’essere, ma soltanto l’avere. La cultura deve essere un motore. E’ una visione del mondo che prima o poi vince. Se non c’è cultura non c’è visione del mondo. I politici, cioè, devono garantire la libertà, e non garantirsi il potere attraverso la cultura. E’ ‘na parola… Ma questa è la sintassi della democrazia. Una democrazia sana dovrebbe garantire libertà espressiva. Un artista – entrando nel particolare – non può dipendere dalla politica culturale di un determinato assessore, che prima era addetto all’Urbanistica, poi alla Sanità, poi diventa assessore alla Cultura o soprintendente dell’Opera. Qual è, dunque, la funzione del teatro pubblico? Non è un’occasione economica; il teatro pubblico fa parte dei primi compiti dello stato sociale, come la sanità, come il lavoro. Il teatro pubblico deve abbassare i prezzi, renderli popolari. Poi forse il teatro privato si adeguerebbe… Se in un paesino sperduto della Maremma io riesco a portare a teatro pubblico a vedere “L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello, fatto bene (non sto parlando di Pina Bausch); e se dopo tre anni di lavoro recupero al teatro 15 spettatori, allora si può dire che io ho svolto “quantitativamente” una cosa più importante di qualunque coda a qualsiasi spettacolo di gran moda.

Perché parli di quantità e non di qualità del progetto teatrale utile per la collettività?

“Perché la qualità è difficilmente definibile, diciamo labile. La quantità no. Ma non parlo di quantità come semplice sommatoria di cose, numero spettatori, numero repliche, eccetera… Parlo di quantità come differente quantità che determina elementi con caratteristiche diverse. Come una diversa quantità di elettroni rende un elemento differente dall’altro. E’ un concetto di quantità, non di qualità…”

Un concetto di quantità che si potrebbe definire di quantità specifica, come nel caso dei 15 spettatori portati a teatro in quel paesino sperduto della Maremma. Un secondo ribaltamento del senso comune di questa società, laddove prima hai parlato di privati che dovrebbero adeguarsi, come prezzi del teatro, a quelli popolari del pubblico. E avviene il contrario. E ora dici che la massificazione quantitativa va superata per un criterio di giudizio totalmente diverso.

“Oggi stiamo di fronte a una fase pericolosa. Si forma un pubblico di voyeur che confonde l’immagine elettronica con quella umana. Si va verso una fase in cui si “fa” l’attore, non si “è” attore. Perché poi scuole non ce ne sono. Maestri non ce ne sono e quest’arte attorica che è il teatro, che si basa sull’attore, rischia di scomparire. Ci sono esperienze che non utilizzano l’attore, con scenografie speciali, cose encomiabili. Carpenteria, macchinismo, per l’amor di Dio va bene: ma si tratta di un’altra cosa, non parliamo di teatro. Anche la pittura non ha un attore e va benissimo, ma un quadro non è teatro, è un quadro. A meno che non si parli del teatro del mondo, ma si tratta di un’altra cosa, molto difficile. Ma non possiamo parlarne perché ci rivolgeremmo a chi non può capire. Perché neanche noi lo capiamo…”

E finiva così la chiacchierata. Con quell’ironia di Leo che era nel suo sorriso e nel suo giocare continuamente con la materia della vita e della cultura, modellando, costruendo e proponendo immagini e intuizioni. E la lunga giornata finì bevendo oro e parlando di Perla. Che mentre ascoltavo quel nastro di tanti anni fa, pensavo a quei giorni, e scrivevo questa intervista, se n’è andata. All’improvviso. Come era vissuta.

(intervista raccolta a Bologna il 14 maggio del 1997)

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