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di Alessandro Piccioni

 

Non v’è questione politica che mi interessi più della salute della nostra economia. Qualcuno potrebbe obiettare: “approccio limitato, dude”. Non proprio, e vi spiego perché.

La crescita economica non solo porta evidenti vantaggi in termini di beni e comodità materiali, ma favorisce anche la creazione di una società in cui le persone sono più tolleranti, generose e cooperative.

D’altra parte, quando le persone fanno fatica dal punto di vista economico, sono inclini ad essere più indignate verso il sistema politico, sospettose e invidiose verso i propri concittadini. In particolare, coloro che si trovano a sperimentare la piaga della disoccupazione, costretti ad affrontare la perdita di controllo sulla propria vita e l’incapacità di provvedere al sostentamento della propria famiglia e dei propri cari, tendono a demoralizzarsi e a cadere in una spirale di depressione e inoperosità. Inoltre, l’impatto negativo della disoccupazione va ben al di là della perdita di reddito, colpendo anche coloro che sono ancora occupati. Disoccupazione cronica e sottoccupazione diffusa causano mancanza di fiducia nel futuro e quindi consumi ed investimenti inferiori

Diversamente, quando creiamo posti di lavoro e generiamo salari decenti, abbiamo una situazione in cui la portata dei problemi politici e sociali viene sensibilmente ridotta e in cui le restanti questioni possono essere affrontate in modo più stabile e in un ambiente più sereno. In breve, la sicurezza economica incoraggia la buona volontà e la cooperazione politica.

La Germania, l’Italia e il Giappone pre-seconda guerra mondiale, paesi che hanno sofferto più di quanto non abbiano fatto USA ed Europa durante la Grande Depressione 2007-2009, offrono esempi che fanno riflettere su quale sia il percorso da non intraprendere.

 

In tale contesto cerco di valutare i candidati alle presidenziali americane 2016, elezioni quanto mai importanti per le sorti di un Europa completamente smarrita. Negli Stati Uniti, solitamente vi è una differenza minima fra la vision economica di un candidato rispetto ad un altro, persino fra Repubblicani e Democratici. Quest’anno, però, abbiamo un outlier, una persona che si presenta in modo radicalmente diverso dal classico politico americano: un ” Socialista democratico”. Sto parlando, ovviamente, di Bernie Sanders.

Ma cosa significa esattamente “socialista democratico” in termini politico-economici e come potrebbe rispondere il sistema economico ad una presidenza Sanders? La visione economica di Sanders parte da tre assunti:

1) L’economia capitalista fa fatica a generare una domanda sufficiente ad assumere tutti coloro che sono disposti a lavorare;

2) L’economia capitalista ha chiare tendenze a sfociare in crisi periodiche;

3) L’economia capitalista ha bisogno di evitare qualsiasi concentrazione di potere e ricchezza per funzionare correttamente.

Qui è necessario fare la prima importante digressione economica. I cosiddetti establishment economists sostengono che, in un sistema capitalistico, i tassi di interesse si aggiustano, affinché la domanda (investimenti, consumi, spesa pubblica etc.) possa aumentare e fino a quando non si raggiunga un equilibrio di piena occupazione. Dall’altra parte i cosiddetti business-cycle economists, sostengono i punti 1) e 2) e rifiutano non solo l’idea che si verifichino tali aggiustamenti, ma anche che i tassi di interesse non abbiano un grande impatto su famiglie ed imprese. Questi ultimi appoggiano la visione di Bernie Sanders.

Ma è il terzo punto ad essere quello fondamentale e più rappresentativo della visione economica di Bernie. Se singoli individui o piccoli gruppi di interesse sono in grado di accumulare una quantità notevole di denaro e potere, i processi democratici e capitalistici vanno in corto circuito. Il capitalismo propriamente inteso è un sistema anti-business. Adam Smith, il padre del capitalismo, scrive:

“Le persone che operano in uno stesso settore economico, raramente si incontrano senza che la conversazione si trasformi in una ‘congiura’ verso i consumatori, o confluisca in qualche accorgimento per aumentare i prezzi.”

In altre parole, Adam Smith afferma che non ci si può fidare degli uomini d’affari. Per natura, i businessman sono avidi (non che questo li differenzi da chiunque altro) e non sono stupidi. Sanno che possono fare molti più profitti se colludono con altri imprenditori o se possono ingannare i loro clienti. Proveranno quindi a farlo. Costantemente.

Di conseguenza, Smith sostiene la necessità di impedire alle imprese di colludere. La sua risposta? La concorrenza. Assicurarsi che ci siano abbastanza imprese in un settore particolare non solo per rendere loro difficile colludere, ma anche per garantire che gli imprenditori pensino che, se non sono loro ad offrire il miglior connubio prezzo/qualità ai propri clienti, qualcun altro lo farà. Saranno quindi costretti a soddisfare i loro clienti, se vogliono diventare ricchi. Questa è la “Mano Invisibile”: gli imprenditori che operano unicamente per interesse personale, favoriscono, inavvertitamente, l’interesse personale degli altri. Ma solo se c’è concorrenza sufficiente.

“E allora? Abbiamo già il libero mercato” qualcuno potrebbe obiettare. Il problema è che il libero mercato e la competitività dei mercati non sono la stessa cosa e ci sono molti settori in cui accumuli significativi di potere sono già avvenuti a scapito della classe media. Un numero crescente di studi ha evidenziato questa tendenza preoccupante, riconducibile quasi esclusivamente alla riluttanza del governo a far rispettare le leggi antitrust e/o finanziare quelle agenzie che operano nel settore del monitoraggio. Ironia della sorte, parte della giustificazione di questa politica laissez-faire è stata quella di non voler interferire con il libero mercato! Che questa visione distorta spesso provenga direttamente da coloro che beneficiano dalla diminuzione della concorrenza non è sorprendente. Mentre in pubblico suonano la tromba del capitalismo, in privato sperano di mettere in ginocchio la Mano Invisibile, perché’ rappresentanti di interessi particolari (ricordate Silvio?).

Questa sembra essere una questione chiave per la campagna di Bernie. Giustamente, ripete ossessivamente che too big to fail is too big to exist, cioè che se ci sono banche troppo grandi per fallire, sono anche troppo grandi per esistere – e vanno quindi effettuate delle scissioni e/o spin-off. Similmente, vuole intervenire in settori come quello farmaceutico, dove il prezzo dei medicinali è schizzato alle stelle a causa del consolidamento di molte multinazionali del settore (in Italia non lo vediamo direttamente perché è lo Stato a comprare i medicinali, ma questo ha un impatto diretto sul costo della sanità e, di conseguenza, sulle nostre tasse); quello delle telecomunicazioni per abbattere il costo di servizi Internet e banda larga e quello dei media dove sarebbe necessaria completa concorrenza fra le televisioni. Almeno in superficie, le politiche di Sanders sembrano essere completamente allineate a quelle del Gran Maestro del Capitalismo, Adam Smith!

Inoltre, la concentrazione di ricchezza e, di conseguenza, l’accumulo di potere non sono problematiche limitate alle imprese commerciali. Anche il reddito familiare sta finendo nelle mani di un numero sempre più limitato di persone. Ed in economica non vale la regola “una persona-un voto”, ma “un dollaro-un voto”. Una delle conseguenze di questa trasformazione è stata che la decisione riguardo a cosa e a quanto produrre è stata tolta al consumatore medio, il quale, nell’accezione originaria di Adam Smith, sarebbe dovuto essere “sovrano” nel sistema economico di riferimento.

In sintesi, possiamo dire che le politiche economiche proposte da Bernie Sanders sono focalizzate a generare domanda e quindi posti di lavoro; controllare le crisi sistemiche, endemiche in un sistema capitalista, e difendere i più deboli; combattere le tendenze monopolistiche dell’economia e la concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi.

È questo che Bernie intende per socialismo democratico? Ad essere proprio onesti, non ha molto senso. L’aggettivo “democratico” è giustificato, in quanto Bernie promette di rompere le concentrazioni di potere e di garantire che questo torni ai cittadini. Il resto della sua piattaforma programmatica, tuttavia, sembra molto più capitalista che socialista. In realtà, ci sono alcune questioni rispetto alle quali Bernie propone un ruolo più forte del Governo, ma anche Adam Smith pensava ci fossero delle funzioni che lo Stato potesse esercitare più efficientemente dei privati. Sulle questioni di base, quindi, è difficile trovare dei punti di disaccordo fra il padre del capitalismo e il socialista democratico del Vermont.

Che un economista di scuola liberale, quale mi ritengo, debba suggerire che il “Socialista-democratico” sia il candidato maggiormente pro-mercato è… Bizzarro? Ironico? Scioccante? Quanto meno inaspettato.

Ma forse Bernie Sanders dovrebbe iniziare a chiamare sé stesso “capitalista democratico”, piuttosto, e tranquillizzare gli elettori americani!

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