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Dal Cairo

Sara Datturi

 

Mi manca il vento sulla pelle, quella sensazione di carezze naturali che ti portano a vivere il vortice delle emozioni all’ennesima potenza. C’è così tanta dolcezza nel signore con i baffi che gestisce la lavanderia vicino a casa mia, tutta la sua famiglia vi lavora con grande umanità e dignità. Mi piace spiccicare con lui le mie poche parole di arabo, mi sento in qualche modo coccolata da questo uomo sessantenne che potrebbe essere mio padre, che seduto sul suo trono osserva i mille passanti, tiene d’occhio il suo quartiere. Ho l’impressione che sappia leggermi il cuore, che non mi giudichi perché occidentale, perché diversa dalla cultura egiziana. Mi guarda negli occhi e basta.

Ancora vita vissuta attraverso gli occhi dei tanti compagni di viaggio che mi hanno accompagnato in questo Egitto vorticoso, impegnato, sorprendente con tante contraddizioni e un passato pesante sulle spalle che non può essere dimenticato.

Dahab, una delle destinazioni turistiche alternative hippy che si svuota, cerca di diventare non più un luogo di soli festival di musica, ma anche un posto dove i divers (sub) possono creare il loro luogo incantato per poter ammirare un mondo marino incommensurabile.

Amici con cui hai condiviso pezzi di rivoluzione che ritornano a diventare compagni di viaggio, clash di passato che torna, la tranquilla sensazione di continuare a suonare la stessa musica, la chiara consapevolezza di volerti lasciare andare nell’esplorare quel uomo che è diventato.

Cosi tra la sua spontaneità riscopro un’altra Cairo, una città che si muove, sorride, accoglie… di una gentilezza prepotente, buffa con il suo caos ordinato, nostalgica dentro le sue mura storiche, mistica in questa miriade di moschee di tufo dove luce e lampade colorate fanno le capriole con un tramonto che non se ne vuole andare.

Colori all’orizzonte dietro montagne rosse, la consapevolezza di un uomo e del suo passato, la ricchezza interiore, l’energia di una vita che vuole ancora essere morsa, attori ancora una volta, scalatori di montagne che si apprestano a capovolgere i propri orizzonti.

Morsi, voglia di non accontentarsi, di prendersi il tempo per ascoltarsi e camminare al ritmo del proprio cuore che non riesce a fermarsi.

Case nuove, caso che arriva, nuove parole e conversazioni che diventano zucchero filato in troppe giornate aggrovigliate.

Un Cairo che m’avvolge, mi stringe in un vortice infinito di sensazioni, rumori, colori, giovinezza che danza parallela alla vecchiaia, questi uomini con i loro turbanti colorati e i bastoni che instancabili lavorano come portieri nei tanti palazzi per guadagnare ancora qualche pound da portare a casa nonostante l’età. Ingegno costante per cercare una fonte di guadagno e riscatto per la propria famiglia, solidarietà verso un individualismo crescente, verso un dio denaro che non perdona.

Desideri di secolarizzazione che si muovono lenti e costanti in parallelo con una cultura ancora conservatrice. Il nuovo quartiere in mezzoa una nuova classe media egiziana e una povertà che si vede, si sente, che con dolcezza ti trasporta in altri sapori e pensieri. Musiche kitsch che non smettono di risuonare, fuochi d’artificio infiniti che non smettono d’inneggiare alla vita.

Sorrisoni di camerieri con la loro sigaretta perenne in bocca, signore che vendono pane caldo per la strada, le loro righe ataviche diventano la mia macchina del tempo per pensare alla mia famiglia, i miei nonni, la loro dignità e fierezza nel vivere la loro quotidianità italiana.

Zuccherino
, un ragazzo trentenne come tanti, diventato capo famiglia troppo presto, lui che vuole sposare tutte le sue sette sorelle prima di pensare o poter scegliere e rischiare per il suo futuro. Commerciante che dal Cairo si è spostato verso le zone turistiche del Sinai, capace d’imparare cinque lingue soltanto parlando con i turisti, lui viaggiatore nomade con una mentalità creativa e aperta attraverso le miriade di culture a cui e stato esposto.

Herman e il suo accento romano forte, la sua voglia di riscatto per un passato dove è riuscito a provare a se stesso quanto si può essere attori della propria vita e dell’esistenza, ha rischiato ed è riuscito ad arrivare dove voleva. Adesso con i suoi settant’anni ha realizzato che vuole rischiare tutto. Non è più tempo per facili sogni.

Flash d’emozioni che vorresti trattenere dentro, tutto scorre veloce, il diritto di una generazione ancora intrappolata in gerontocrazie ottuse, in sistemi dove si prediligono una serie di norme finalizzate a riempire la pancia di uomini che hanno già tutto.

Generazione, la nostra, che è liquida, volatile dove tutto è in perenne incertezza, incastrati in buchi di formaggio profondi in cui la lotta quotidiana diventa difficile. Il diritto di poter avere lo spazio per creare, realizzare, modificare, sperimentare, contestare, riscoprire distruggendo. L’urlo di una generazione viandante, in altalenante disturbo emotivo, costantemente in preda ad un’insoddisfazione crescente per un dopo che è adesso.

Dolce passionale abbandono verso un lui che si è lasciato andare, un vuoto che cerco di colmare con quest’umanità che mi circonda, nelle sue urla più forti spero di ritrovare quel gioioso ingegno per continuare il cammino.

Bolle di sapone di tratti d’esistenza che sembrano svanire in un attimo, voglia d’essere abbracciati all’infinito, bisogno di tenerezza costante, profumi di pelle addosso, sudore che s’appiccica a morsi d’incostante e traballante imperfezione. Circuiti che impazziscono, incapacità di attualizzare ciò che si sente, consapevolezza di avere troppo, di essere incastrata in problemi da noi stessi creati. Bivi, scelte che bussano sempre più vicine al cuore, che si sa non potranno essere rimandate all’infinito.

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