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di Pancrazio Anfuso

Le barche a vela
l’acqua d’argento
i cristalli di sale
sulle sue sopracciglia
Il mondo intero
improvviso e splendente
un attimo prima che D-o
ti ci facesse entrare

Io non lo conoscevo.
Leonard Cohen, dico.
Ho alcuni suoi dischi, una raccolta di poesie, scritti e disegni pazzi. Ma non lo conoscevo.
Non ho potuto piangere quando è morto.
L’ho scritto su facebook, certo. Lo fanno tutti quando muore uno famoso e Leonard Cohen lo era. L’ha citato persino Paolo Sorrentino nello Young Pope, puntata andata in onda il giorno stesso della morte del Poeta. Pensa che fortuna: Hallelujah, nella versione di Jeff Buckley, così ti prendo due piccioni-cadaveri eccellenti con una fava, e lo scrittore preferito da Pio XIII, che sarebbe Elmore Cohen, con l’elisione dell’intersezione che sta a unire, sottintesa: Elmore (Leonard) Cohen. Due giganti e solito magnifico affastellamento di citazioni che Sorrentino ammucchia facendo da specchio al disordine delle nostre teste.

Like a bird on the wire
Like a drunk in a midnight choir
I have tried in my way to be free.

Le canzoni di Leonard Cohen, quelle vecchie, quelle più famose, erano poesie appoggiate delicatamente su una struttura scarna, declamate con voce sognante. Ascoltate oggi, sembrano noiose, e forse lo erano anche 50 anni fa. Sul mio piatto rimanevano giusto un po’ di tempo, prima di lasciare il posto a qualche rutilante Strummer.
Parlavano d’amore, di libertà e di dio.
Anzi, D-o, ché Cohen non scriveva il nome della divinità.

Amore e trascendenza. Più amore, vista la corte di femmine di cui si è saziato il poeta, in cerca perenne d’ispirazione. Un amore gentile, costruito con i versi più eleganti, la bellezza della sua figura misteriosa, la voce profonda. Amore e preghiera, i due ascensori per l’infinito, quello che giustifica l’esistenza o comunque aiuta a sopportare l’enormità del peso del mondo.

Grazie ad alcune canzoni
in cui parlavo del loro mistero,
le donne sono state
eccezionalmente gentili
nei confronti della mia vecchiaia

Il Poeta è morto quando Trump vinceva la corsa alla Casa Bianca. Il bello che lascia spazio al brutto. Ma non c’è un vero nesso tra le due cose. E nemmeno si deve pensare che il 2016, mietitore di figure leggendarie della musica, sia un anno “maledetto”. I superstiti del rock sono malandati, pagano anni di eccessi e anzianità anagrafica.

I nostri miti sono morti e sepolti, questo è il problema. Il mondo è cambiato e non c’è posto per l’utopia, chi cantava la pace, l’amore e la comprensione giace all’ombra dei cipressi.
Come faremo a capire il mondo senza la poesia?

Oggi debutta a Firenze (Rifredi) l’Ubu Re di Roberto Latini. Chi può vada a vederlo, ne vale la pena. L’Ubu è la perfetta rappresentazione della scelleratezza e degli eccessi del potere. Descrive perfettamente Trump, che incarna in una figura sola la rozza caricatura di sovrano avido e laido di Père Ubu e la maligna grettezza della moglie. In più Trump eccelle di suo nel ramo phynanze e non ha bisogno di decervellare nobili per rubargli i soldi. Si può così dedicare ai poveri e agli immigrati. Di quello che fa alle donne, poi, ha già abbondantemente detto.

La storia si racconta
Coi fatti e le menzogne
Voi possedete il mondo
Dunque lasciate perdere

Intanto noi discutiamo: ma Clinton o Trump non era lo stesso? Critichiamo la logica del male minore. E mi pare giusto.
L’uno e l’altro ci lasciano correre come criceti nella ruota, producendo per consumare, per tutto il tempo che ci rubano. E il tempo dovrebbe servirci per vivere.
Mi viene in mente Pepe Mujica:
Le cose materiali non producono affetto, lo fanno solo gli esseri umani.
Per coltivare questi affetti bisogna avere tempo per stare con amici, figli, amore.
Bisogna avere il coraggio di lottare per gli affetti. Non è possibile nessuna felicità senza affetti. Non lasciatevi rubare il tempo della vostra vita.

Amore, affetto, poesia, trascendenza, bellezza. Sono queste le medicine che scacciano via il Trump che ci ammorba. Antibiotici senza controindicazioni: non sono medicinali, si possono usare senza nessuna cautela.

Quando tutto crollò
E arrivò il dolore
Adesso lo capisco
Ero là per te

Non chiedermi come
So che è vero
Adesso lo capisco
Ero là per te

Faccio i miei progetti
Come sempre
Ma quando mi volto indietro
Ero là per te

Cammino per le strade
Come facevo un tempo
E gelo di paura
Ma sono qui per te

Rivedo la mia vita
Da cima a fondo
Non ero mai io
Eri sempre tu

Tu mi hai mandato qui
Mi hai mandato là
A rompere cose
Che non so riparare

A costruire oggetti
Con il pensiero
E altri ancora a crearne
Evitando di pensare

A mangiare cibo
E a bere vino
Un corpo che
Credevo fosse mio

Vestito da arabo
Vestito da ebreo
O maschera di ferro
Ero là per te

Sentimenti di gloria
Sentimenti tanto sozzi
Il mondo esce da
Un panno insanguinato

E la morte è vecchia
Ma è sempre nuova
Io gelo di paura
E sono qui per te

Lo vedo chiaramente
L’ho sempre saputo
Non si trattava mai di me
Ero là per te

Ero là per te
Mio caro
E secondo la tua legge
Tutto si è compiuto

Non chiedermi come
So che è vero
Adesso lo capisco
Ero là per te

(versi di Leonard Cohen)

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