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Questa recensione potrebbe iniziare esattamente con le stesse parole con cui inizia il suo oggetto: «Per cominciare, devo confessare che questa cosa mi piace molto». E penso che Alfie Bown, autore di Capitalismo & Candy Crush, da pochissimo apparso in italiano nella traduzione di Matteo Bittanti per NOT, abbia consapevolmente modellato una prosa distesa e chiarissima per farci divertire, così come lui si è divertito nella stesura, terminata nel 2014 e completata da una breve introduzione – aggiornamento di quest’estate, di questa disamina dei tipi di divertimento più disparati, giocare a Candy Crush, guardare concerti di Beyoncé, divorare cinema d’autore, leggere Hegel. Divertirci è essenziale per capire, per esempio, quello che leggiamo?
E questo divertimento è innocuo, o, ancora meglio, costruttivo, come ci piace immaginare? E che fine ha fatto il potenziale sovversivo del divertimento, in un momento in cui, in modo ancora più comicamente esasperato che nel 2014, alziamo gli occhi in metro e ci vediamo circondati da pendolari spossati e incollati ad Angry Birds?

Se sentite una vena di moralismo in quest’ultima domanda, siete in buona compagnia. L’imperativo categorico enjoy!, goditela!, che compare anche nel titolo originale di Bown, si impone nelle nostre vite nelle sue molteplici declinazionimangia! Fotografa! Compra! , e in forme sempre più nuove, più quantificabili, più monetizzabili, ma nella sostanza le stesse già chiare ad Adorno, Lacan, e, tra i filosofi più pop degli ultimi anni, Žižek: è una consapevolezza già tranquillamente fagocitata dalla pop culture stessa («le cose che possiedi alla fine ti possiedono») che il nostro intero sistema economico si puntelli su bisogni materiali di impossibile soddisfazione, semmai è una novità il suo graduale intromettersi fino
all’indirizzamento e alla modifica esplicita di quei bisogni. Molto più radicale (e difficile) è accettare l’inconsistenza della dicotomia divertimenti produttivi – divertimenti improduttivi, tesi esplorata da Bown nel primo capitolo, per cui non
sarebbe necessariamente preferibile, nell’ideale di opposizione al sistema del divertimento forzato, trascorrere il tempo a leggere Deleuze (o qualunque altro consumo culturale) piuttosto che a giocare al cellulare.

Se vi interessa essere sorpresi e irritati da questa semi provocazione sulle vostre attività di lettori o spettatori, il primo capitolo fa per voi. Quante persone di vostra conoscenza adorano (giustamente) i libri, la carta stampata, le edizioni particolari, il possesso fisico del libro? Eppure, la questione è ancora più a monte. Se anche il meccanismo del divertimento del consumo culturale non generasse, nella maggior parte dei casi, fenomeni evidenti come la feticizzazione del libro, e avvenisse in condizioni assolutamente francescane di lettura digitale, minimalismo, autoproduzione, tiny house e pannelli fotovoltaici, si porrebbe comunque il problema di a chi e a che cosa serve questo divertimento. Non è infatti il desiderio concreto di merce, ma anche e soprattutto la legittimazione del desiderio in sé («non è importante cosa si desidera, ma che si desidera») a strutturarci in quanto soggetti capitalisti perfettamente funzionali ad un sistema opprimente. Desidero, dunque sono: mi diverto, dunque sono.

Desidero leggere Deleuze, dunque sono un intellettuale: mi diverto a leggere Deleuze, dunque devo avere un «dono di natura» che mi distingue dagli altri, una capacità apparentemente connaturata alla mia persona a godere di letture difficili. E non è facile per nessuno decostruire i propri gusti, che appaiono orgogliosamente e spontaneamente iscritti nella nostra individualità che si vorrebbe «radicale»: «il nostro godimento culturale si fonda su un processo che implica l’elisione del processo di acquisizione. Ne consegue che il godimento è il motore dell’ideologia giacché naturalizza ogni esperienza socialmente acquisita» (p.27). Con il rischio più che concreto di barricarsi ciascuno nel nostro simulacro di personalità e individualità impermeabile, contro ogni comunicazione, idiosincrasia, varietà, incoerenza. Il «divertimento produttivo» come veicolo della separazione sociale.

Dei tipi di divertimento «futili» o «improduttivi», dunque, Bown non pensa nulla di necessariamente peggiore. Anzi, confessa di essere un gamer appassionato (nel 2017 ha pubblicato The Playstation Dreamworld, analisi del mondo del videogioco contemporaneo a partire dalla psicanalisi lacaniana) e di avere fiducia nelle capacità critiche del gamer medio, nonostante l’impianto visibilmente conservatore della gran parte del mondo del gaming (centralità di dinamiche di conflitto, difesa dei confini, conquista…). La critica al cultural bias generalizzato contro i videogiochi non impedisce comunque di rilevare delle criticità nel modo in cui vengono fruiti, soprattutto i giochi da cellulare, che rappresentano non solo una «distrazione» e un incanalamento vuoto di energie potenzialmente rivoluzionarie, ma anche, recuperando ancora Adorno, un «prolungamento» del tempo lavorativo. Bown osserva in un’intervista che nessuno si mette a giocare a Candy Crush la domenica mattina, seduto tranquillamente sul divano con il caffè. È negli interstizi tra lavoro e lavoro, nelle pause, o tra lavoro e casa, sui mezzi di comunicazione che avviene la fruizione isterica e frazionata del giochino, dandoci la sensazione, quando stacchiamo, di tornare a fare qualcosa di importante e imprescindibile per la società, il nostro lavoro, e facendoci quasi godere del nostro senso di colpa per aver perso
tempo.

Questa sezione della lettura può, tra l’altro, generare serie riflessioni sulla vastità di attività e intrattenimenti incorporati dal tempo lavorativo come «prolungamento», la meditazione e la mindfulness per essere più produttivi, l’ossessione per l’alimentazione sana per sentirsi più energici, lo sport per scaricare la tensione dell’ufficio, la ginnastica posturale per le ore infinite al computer. L’interscambio e la sovrapposizione continua tra tempo del lavoro e tempo «libero» concorrono esattamente a definirci come quei soggetti capitalistici che, più di tutto, avrebbero bisogno di vero ozio: tempo non monetizzabile, né necessario a definire chi siamo come «individui», tempo libero rispetto agli impegni e rispetto al nostro stesso incasellamento in un’identità granitica. Il divertimento, Bown sottolinea più volte, è spesso un ingranaggio malevolo di questo processo, soprattutto quando non viene osservato e decostruito nella sua artificialità. Cosa resta, dunque? Può esistere ancora un enjoyment sovversivo?

Sì, e la risposta, di cui non vorrei svelare troppo, potrebbe essere una boccata di ossigeno, specie dopo uno sguardo così critico su tutto il resto. Certo, a ciascuno è concessa la sua opinione e il suo margine di controllo e analisi del tipo di enjoyment a cui cede con più frequenza. E ciascuno può darsi una spiegazione del perché proliferino forme di enjoyment che esercitano un deciso appeal su tutti, di cui gli esempi discussi da Bown, da Game of Thrones a Gangnam Style, sono una minuscola parte. Questo carattere di inspiegabilità del perché certe cose piacciano universalmente, soprattutto a chi razionalmente non ne vede il motivo, è la chiave di liberazione del divertimento – o meglio, del rapporto con il divertimento – proposta dall’autore nelle ultime delle 127 scorrevolissime pagine di Capitalismo & Candy Crush: vediamo se siete d’accordo, o se vi fa divertire, o entrambe.

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