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di Antonio Cipriani

Piovuti da mondi sconosciuti in un mondo sconosciuto, come barbari abbiamo lasciato che il nostro sguardo prendesse spazio di ogni orizzonte. Scendesse nel cuore delle cose e della città per riconquistarne la fiducia, scavando nel tempo, per dissacrarne il senso mondano, spezzando lacci e lacciuoli di mille dogmi dell’utilità, devastando a colpi di mazza il quieto vivere, l’accettazione del quieto vivere, la pavida attesa di una briciola, di uno spazio, di una borsa da portare nell’attesa di restituire violenza a violenza. Di farsi servo per poter poi farsi servire. In uno schema che il conformismo conosce a menadito e che ha costruito la peggiore classe culturale e politica di sempre. Feroce, fascistoide, lecchina, abbarbicata a uno schema di cattiveria e prevaricazione.

Ruffiana e gretta. Senza cuore. Senza neanche quella sana ignoranza che dal non sapere guida l’istinto e l’arte; anzi, brutta di un’ignoranza spocchiosa, piena di conoscenze incasellate a figurine. Volgare con le sue mode, con il sapere saputello e sempre codardo; mai che indichi una messa in discussione, un mezzo passo avanti. Mai che sia quel passo che frantumi il moltiplicarsi di infrastrutture del niente che sorreggono questa pace dei sensi sociale e culturale, l’amorfa libertà, l’oltraggiosa parola che è parolaccia sempre e comunque e mai discute, mai segna di sangue o cicatrice il buon senso che lega e annulla, che si fa legalità e senso di sgomento per regole perfide e che instillano una meritocrazia della via di mezzo in ogni cosa, della totale mediocrità luccicante.

Un colpo d’ascia e via. Netto. Visto che da barbari siamo arrivati, proviamo a navigare l’ambiguità che ci appartiene. Ci vedete barbari, perché siamo barbari. Pensateci così, mentre il futuro viene sgranato come un rosario da giovani indomiti che non chinano la testa, fanno del pensiero un’azione e di quell’azione una disarmante mostra di identità e rigore, di radici profonde e senso del tempo in una contemporaneità che può spaventare il tiepido andazzo. Barbari perché balbettanti rispetto all’accettazione passiva e fluente. Certo che lo capiamo: è barbaro il giovane per il vecchio che non accetta alcuna messa in discussione, così è barbaro il povero che non veste da pupazzo tirato a lucido dal marketing. Ed è barbaro il conoscitore dei riti in una platea di indivanati che ritengono antiquata ogni idea di sacralità, ogni fuoco, ogni memoria, ogni scintilla.

Eretici a fronte dei rivoluzionari a format preconfigurato, filosofi della citazione da baci perugina, imbolsiti cantanti in play back.

Che poi di questo si parla. Di dividere il mondo sulla base di uno strumento ideologico che è sempre stato funzionale al mantenimento della stabilità interna in qualsiasi forma di organizzazione. Politica, statale, sociale, culturale. Dove lo scambio possibile è all’interno del sistema stesso che tende a rinnovarsi per mantenersi immutabile. E a ogni chiusura corrisponde un peggioramento, una radicalizzazione e un necessario innalzamento di barricate. Dove vige un Noi che siamo dentro e un Voi barbari, eretici che dovete restare fuori. Ben sapendo che dal vigore degli esclusi dipende la rivoluzione. Che sia di bellezza e cura, di imprevedibile tenerezza e rivolta. Di risveglio nelle città che sono nel loro conformismo apolitico corpi senza vita, disegnate come ambienti sempre più scenografici nel consenso, in mano a festival cartonati del consumismo che calpestano il sacro e la memoria come fossero pavimenti da centro commerciale. Luoghi sprovvisti della possibilità più ricca: la differenza. Noi barbari, noi eretici, siamo quelli che facciamo emergere l’idea di differenza. Finché il tempo del torpore di massa non scomparirà.

P.S. Questo testo è dedicato ai ribelli della montagna, ai barbari a cavallo che scendono nella città, a Cinzia Pellegri e al nostro essere sempre e comunque eretici di ogni tempo e luogo.

Barbari con Cinzia Pellegri

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