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di Paolo Marchettoni

 

Ho scelto di scrivere questo articolo di notte perché ieri ho fatto tardi e dunque il cronotipo mi ha imposto questa variazione diurna, ma anche in onore a Shakespeare e alle tenebre tanto care a Macbeth. L’ho scritto di notte non tanto perché ad addormentarsi si rischia di fare la fine del povero re Duncan che, giovane e debole o vecchio e saggio, muore comunque e nel farlo lascia interdetta Lady Macbeth per tutto il sangue che aveva in corpo; ma soprattutto perché “non ho mai visto un giorno così brutto e così bello” come la notte.

Scorrono i titoli di coda sullo schermo, si accendono le luci: sono al cinema, me ne ero quasi dimenticato; Macbeth può fare questo effetto. Ben inteso, anche Quo vado? o Star Wars possono. Ogni opera compiuta dovrebbe generare una reazione: che sia riso o pianto, gioia o dolore, compiacimento o fastidio, piacere o disgusto; tremendo sarebbe non sortire alcun effetto sul pubblico. Ancor più tremendo è chi alimenta la competizione fuori luogo e fuori tempo, senza controllo, tra generi diversi. Resta pur vero che lo stile tragico eleva il contenuto. Lo innalza a tal punto da sublimarne il pianto, lontano parente del lamento dell’elegia funebre. Qui il contenuto è un indagine sull’animo umano. Un animo colmo di grandi contraddizioni: Macbeth è un guerriero capace di grandi virtù come il valore e la lealtà, ma anche un vile assassino disposto a macchiarsi di disonore e infamia; mentre la sua Lady è una donna malvagia, forte e determinata, ma allo stesso tempo è un essere indifeso fragile e insicuro.

Si tratta di un classico della letteratura che offrirà sempre spunti di riflessione. Ad esempio, c’è una battuta di Macbeth (atto V scena VII), riportata anche nel film di Kurtzel, che dice: “Non reciterò il ruolo ottuso del romano, non mi butterò sulla mia spada. Finché vedrò vivi intorno a me, riserverò a loro i miei colpi”.

Questa frase, pronunciata poco prima della resa dei conti dall’eroe guerriero-assassino, ha stuzzicato la mia fantasia dopo lo spettacolo.

Uscito dal cinema, mentre discutevo con gli altri su quanto il regista abbia “messo del suo” nella sua trasposizione cinematografica di questo capolavoro teatrale, sulle interpretazioni degli attori e quant’altro, ha cominciato a insinuarsi nella mia testa una domanda.

Ero desideroso di capire la differenza tra l’eroe tragico romano, definito ottuso, che sceglie di porre fine alla propria esistenza suicidandosi e quello shakespeariano che invece si scaglia contro i suoi nemici nel tentativo estremo di spezzare le loro vite, anziché la sua.

Nel mondo classico il suicidio era considerato in molti casi un atto virtuoso col quale l’uomo poteva ribadire l’indipendenza della propria volontà. Di fronte a una malattia o alla società, al cospetto dei nemici o dei propri cari, il suicidio si configurava come il gesto stoico per eccellenza: un’estrema forma di controllo su se stessi e sulle proprie scelte.

Potrà sembrare una decisione sciocca e irrazionale, una contraddizione in termini non da poco, ma in realtà eliminarsi per non cadere vittima delle azioni altrui è un gesto coerente, capace di dimostrare che la libertà di una persona va al di là di ciò che gli viene imposto dall’esterno e che il suo valore non è stabilito da ciò che egli possiede come i beni, gli affetti e la stessa vita. Un concetto apparentemente distante e sgradevole per l’uomo contemporaneo indotto a credere che senza i soldi, cioè privato del proprio potere d’acquisto, la sua vita non conti più nulla.

Tornando a Macbeth, la sua battuta ha una piccola parte nella tragedia della sua vicenda umana. Senza dubbio egli è un eroe, un guerriero valoroso pronto ad abbattere il nemico con la sua spada; ma è anche un traditore, un assassino vigliacco che pugnala il buon vecchio re Duncan suo amico e parente.

Il tema del potere usurpato spesso prevede una struttura cosiddetta ad anello: quasi sempre comincia e si chiude con uno spargimento di sangue. Il potere rappresenta il fine e il sangue è uno dei mezzi possibili per il suo raggiungimento, sia in caso di appropriazione illecita che di legittimazione.

Il filo conduttore in questo sdoppiamento della personalità e che potremmo definire, sempre in termini psicoanalitici, come un meccanismo di difesa è il sangue che sgorga dai corpi a ogni colpo inferto.

Le visioni di Macbeth e la sua insonnia aumentano il divario tra i diversi aspetti della realtà mentale, già innescato dall’incontro con le streghe che rappresentano l’irrazionale: ciò che pur essendo conoscenza non è intellegibile ai sensi e dunque sfugge alla comprensione dell’uomo; evento ben più traumatizzante rispetto alla guerra per il protagonista della tragedia che è un soldato di professione.

Il sonno e l’elemento notturno sembrano sfuggire al controllo umano così come la loro funzione di fasi transitorie in preparazione alla morte, unico punto di arrivo. Non è un caso che Macbeth, abituato alle atrocità dei campi di battaglia, non riuscirà più a dormire dopo l’assassinio del re. Durante la notte la natura sembra morta e le streghe compiono i loro riti, gli incubi infestano i sogni, emergono i fantasmi dei desideri più occulti sopiti durante il giorno. I lupi ululano, i corvi strillano e i grilli piangono, mentre Macbeth in un colpo solo uccide Duncan e con lui il sonno. La notte in cui si consuma il delitto, oltre al lamento degli animali, una voce dice piangendo:

“Non dormirai mai più! Macbeth ha assassinato il sonno”

Senza sonno è impossibile offrire “balsamo alla mente ferita” ed è difficile continuare a vivere persino per un guerriero; ma è facile cadere preda di allucinazioni. Per di più moglie e marito, come nella migliore delle coppie, alimentano di continuo il vortice della loro follia fatto di certezze, dubbi e turbamenti continui, che appaiono e spariscono a intermittenza. Fino alla fine del loro amore, fino alla fine delle loro vite.

Il loro legame è un nodo troppo intricato per essere sciolto in vita, ma che la morte può recidere di colpo. Un unico colpo che fosse il tutto e la fine di tutto, come recita Macbeth, nel monologo che apre la settima scena del primo atto, interrogandosi lucidamente sulla bontà della sua ambizione, prima che l’amata lo inciti al regicidio. Da soldato valoroso fedele al sovrano di Scozia a vile traditore assassino di quest’ultimo, come nelle migliori congiure del mondo antico.

Mi chiedo, allora, seguendo il detto dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna: e se il “problema” di Macbeth fosse stato sua moglie?

E qui si potrebbe argomentare con infinite possibilità, quello femminile è un universo in confronto al mondo della psicoanalisi.

Lady Macbeth e il suo compagno sono entrambi responsabili dei crimini che hanno commesso per impadronirsi del regno, ma con alcune differenze. Lui prova a fare i conti con la propria coscienza, si sforza di riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni e a tratti sembra voler desistere, interrompere la scia di sangue e di delitti, anche a costo di rinunciare al proprio ambizioso disegno colpevole, tra l’altro, di aver messo a dura prova la sua morale e il suo equilibrio mentale. Lei è totalmente incosciente, decisa e determinata ad arrivare fino in fondo, non intende per nessun motivo precludere al marito e quindi a se stessa questa opportunità fatale di usurpazione e conquista del potere. Moriranno entrambi insieme ai loro sensi di colpa: lei pazza, lui come un folle.

Ogni volta che Macbeth è incerto, in bilico tra integrità e corruzione, è lei a a guidarlo verso il baratro della loro disgrazia.

Potrà sembrare un’analisi banale e anche un po’ maschilista, ma bisogna riconoscere che Lady Macbeth ha una funzione fondamentale nell’economia dell’opera; senza dubbio è il personaggio più inquietante della tragedia. Anche dopo la morte, che Peter Stein ha definito una specie di implosione, continuerà a esercitare un influsso sulle azioni del marito, probabilmente destinate a compiersi lo stesso, inevitabilmente condizionate da premesse e promesse del loro rapporto di coppia. Un caso che ricorda quei sanguinosi delitti di cronaca in cui la fidanzata istiga il compagno al massacro di qualcuno che li ostacoli nel raggiungimento di qualche scopo; uccidere come prova di amore e fedeltà.

Uno schema consolidato, tutt’ora in voga, che fa leva su nobili sentimenti quali amore, onore e coraggio, per produrre in realtà il loro esatto contrario: odio, viltà e disonore.

E se una differenza sostanziale tra Macbeth e l’antico romano che si suicida dipendesse non soltanto dalla decisione dell’uomo, ma anche implicitamente dalla donna con cui hanno scelto di legarsi indissolubilmente?

E se Macbeth avesse sposato Arria?

Arria fu una donna coraggiosa che incarnava i valori stoici dell’antica Roma. Durante la sua esistenza dimostrò di essere capace di azioni grandiose. Come quando di fronte al marito Cecina Peto, costretto al suicidio per aver preso parte in Illiria alla rivolta (fallita) del governatore Camillo Scriboniano contro l’imperatore Claudio, diede esempio di grande virtù. La matrona si inflisse il colpo al posto del marito titubante, passandogli poi il pugnale che lei stessa aveva estratto dalle proprie viscere invitandolo a fare altrettanto. Anche in questo caso, come nella tragedia di Shakespeare, la moglie invoca la fides del coniuge nei suoi confronti, pronunciando la solenne frase: Paete, non dolet. La vicenda di Arria, tramandata da Plinio il giovane (Lettere III, 16), Marziale (Epigrammi I, 12) e Tacito (Annali XVI), è destinata a echeggiare eternamente nella storia al pari dei misfatti di Lady Macbeth.

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