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Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Al liceo, la professoressa di fisica amava recitare ad alta voce la legge della conservazione della massa di Lavoisier. Con il tempo ho colto in quella sua abitudine il potere magico del mantra, nella ripetizione ossessiva di quella nozione la volontà di insegnarci qualcosa che, sconfinando la materia, avremmo potuto applicare indistintamente a ogni fatto e situazione della vita che di lì a poco ci attendeva.

Anni dopo, lavorando alla mia tesi di laurea, la legge di Lavoisier mi tornò utile nel tentativo di dissacrare l’arte privandola di quell’imprescindibile presupposto, spesso considerato privilegio di pochi, chiamato, abusivamente, creatività.

L’intento di dissacrare l’arte non aveva, per me, alcun fine degradante; al contrario significava innalzare al rango di potenziale espressione artistica qualsiasi fatto e situazione della vita che poi ho conosciuto, avanzare l’ipotesi che il  comune denominatore di ogni forma d’arte fosse la capacità di isolare ciò che è difficile notare, se immerso nel marasma del mondo, ma che messo in una cornice e contemplato con persistenza assume subito una certa rilevanza (dice John Cage: Se qualcosa è noioso dopo due minuti, prova a farlo per quattro. Se è ancora noioso, allora prova otto. Quindi sedici. Quindi trentadue. Alla fine si scopre che non è affatto noioso).

Il mio desiderio era quello di considerare l’arte come ricontestualizzazione del reale, e non più come il risultato di mistici poteri demiurgici, sgravando dalle spalle di tutti noi il peso del dover essere scelti, baciati dal divino, per poterci considerare artisti, e al contempo sposando quel motto di Goethe secondo cui l’unica premessa alla creatività è l’esistenza.

Alcune correnti artistiche del ‘900 già arrivarono a promuovere questi ideali. Dai Fauves al Cubismo, fino al Dadaismo e Duchamp, le avanguardie si sbarazzano gradualmente dell’essenzialità della creazione ex nihilo, ritornando sui passi di quella mimesi del reale di platonica memoria da cui tutto era cominciato. Lo fanno, però, capovolgendo la realtà – e in quel capovolgimento risiede l’unico prestigio che ci consente di distinguere arte e vita, spingendoci a conferire qualità sacrali a quello che prima, senza colpa, ci sembrava banale, se non irrilevante. Questo è più che mai evidente nella Fontana di Duchamp (1917) – un orinatoio capovolto e firmato dall’artista con lo pseudonimo R. Mutt , divenuto l’emblema del concetto di ready-made (ready-made significa proprio confezionato, già pronto) -, ma lo è ancor più in un’opera che pare essere l’esempio perfetto a supporto delle teorie che stiamo cercando di alimentare in questa piacevole mattinata di sole: si tratta di La base magica di Piero Manzoni (1960), un piedistallo in legno con la funzione di rendere opera d’arte chiunque vi salisse sopra.

La rivoluzione di cui Manzoni si fa portavoce è grande: esseri umani che diventano sculture, vite qualunque che assurgono a dignità d’arte riconquistando la loro naturale rilevanza. Tutto quello che devono fare è salire su un piedistallo, generando nient’altro che una copia precisa del già esistente (o meglio: rigenerando l’esistente stesso).

Dice il critico George Dickie: l’arte è tutto ciò che il mondo dell’arte dichiara tale. La teoria, citata in letteratura come Teoria istituzionale dell’arte, può sembrare a un primo sguardo un manifesto di puro elitarismo, che sigilla il mondo dell’arte nella più ferrea autoreferenzialità. Ma basta ampliarne i confini per rendersi conto che l’assunto può aprirsi a tutt’altra interpretazione. Se è vero che tutto ciò che viene dichiarato arte è arte, allora l’arte è una questione di contenitore prima che di contenuto. I più possono intendere quanto detto come uno svilimento morale della questione, ma a me sembra l’esatto contrario: siamo davanti alla più estrema teoria democratica dell’arte, secondo cui un qualunque fatto preesistente, scelto nel modo adeguato, inserito nel contesto appropriato, brillerà di una nuova e poderosa luce.

E se la sostanziale vuotezza dei vecchi princìpi di creatività fu già smascherata dall’arte visiva, copiare dal preesistente non è ancora visto di buon occhio in discipline come la scrittura, campo che tende ancora – nonostante l’avvento del postmoderno e il suo abbondante uso della citazione –  ad archiviare come plagio tutto ciò che non è smaccatamente creativo.

In CTRL+C CTRL+V, il poeta Kenneth Goldsmith tenta di mettere in evidenza proprio questo paradosso. A partire dalla frase dell’artista concettuale Douglas Hueber Il mondo è pieno di oggetti; non ho voglia di aggiungerne altri – riformulata in: Il mondo è pieno di testi, più o meno interessanti; non ho voglia di aggiungerne altriGoldsmith sostiene, capitolo dopo capitolo, un approccio non-creativo alla scrittura. Così, chiede ai suoi studenti – è docente, alla Penn State University, proprio di un corso in Scrittura non creativa – di scaricare le loro tesine da wikipedia, purché ne difendano il contenuto come fosse loro, ed esalta opere come Getting inside Kerouac’s head di Simon Morris, libro che contiene né più né meno che il testo, ricopiato con pazienza certosina, di On the road.

Se ritenessi queste disquisizioni soltanto sterili congetture e speculazioni intellettuali, probabilmente mi dedicherei anima e corpo a discipline ben più in contatto con la vitalità – quali il pugilato o la lavorazione del legno – ma ritengo che il valore simbolico di talune dissertazioni culturali sia inestimabile se applicate al modo in cui diamo senso alla nostra esistenza.
La legge di Lavoisier, per esempio, ripetuta nella mia mente come una preghiera, mi fa rendere conto di evidenze ontologiche, ancor prima che scientifiche; mi permette di accorgermi del fatto che tutto quello di cui abbiamo bisogno lo abbiamo già, che è possibile farne qualcosa di buono, che nulla è mai del tutto demandato al caso o alla fortuna. Che l’atto di creazione – lo scopo finale della vita: contribuire alla conservazione di se stessa – è piuttosto un movimento (salire su un piedistallo per diventare chi si è già), uno sforzo generato dalla presa di coscienza che tutti noi possiamo.

Ridimensionare l’idea di creatività (con tutti i cliché sul talento e sull’originalità che quest’idea si porta dietro) significa esaltare l’idea di normalità, arrivare a vedere arte e vita come estremi di un segmento che finalmente si uniscono disegnando un cerchio (il cerchio esisteva anche prima, era solo slegato!). Scendendo nel particolare, credo significherebbe sentirci tutti liberati dal fardello di non poter essere in grado, né ora né mai, di raggiungere quella intima rilevanza che il solo fatto di essere vivi esige. La creatività (l’arte) è solo l’esplicitarsi di questo bisogno, e palpita già, biologica, atavica, dentro di noi.

Nulla si crea, nulla si distrugge – sentite com’è rassicurante?

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